La storia della Fillossera raccontata dal Cavalier Prosdocimo
Storia a puntate raccontata dal Cavalier Prosdocimo. Un piccolo, ma interessante, viaggio che ci porterà indietro di 80 anni, al 1930 avente per tema alcune nozioni base di viticultura.....la viticultura dei nostri Nonni
elenco puntate
- Storia della fillossera 01°puntata
- Storia della fillossera 02° puntata
- Storia della fillossera 03° puntata
- storia della fillossera 04° puntata
- Storia della fillossera 05° puntata
- Storia della Fillossera 06° puntata
- Storia della fillossera 07° puntata
- storia della fillossera 08° puntata
- storia della fillossera 09° puntata
- storia della fillossera 10° puntata
- Storia della fillossera 11° puntata
- Storia della fillossera 12° puntata
- Storia della fillossera 13° puntata
- Storia della fillossera 14° puntata
- Storia della fillossera 15° puntata
- Storia della fillossera 16° puntata
- Storia della fillossera 17° puntata
- Storia della fillossera 18° puntata
lunedì 2 maggio 2011
Amici miei, questa volta ho finito davvero: ho finito con una triste rassegna dei più frequenti e più gravi malanni che affliggono questa nostra benefica vite. Ma permettete che, prima di separarci del tutto, io v’inviti a gustare con me un sorso degli ottimi prodotti che essa ci dona, e v’inviti a levar con me il calice per un augurio sincero e fervidissimo. L’augurio che questa pianta gloriosa, che ha rallegrato l’aspra e misera vita dei primi uomini; che ha seguito attraverso i secoli i nostri padri nel faticoso ed arduo cammino della civiltà; che è giunta fino a noi fra avversità e contrasti d’ogni specie – che questa vecchia pianta ringiovanisca perennemente, sfidando le ingiurie del tempo e delle falangi dei suoi nemici, si da poter continuare a darci i suoi dolcissimi grappoli, delizia dei nostri bimbi, e il suo generoso licore, ultimo conforto dei nostri vecchi!
diciottesima puntata
Questa sera parleremo di nemici ben più diffusi, incominciò il Cavaliere, li troviamo fra i nemici vegetali. Per ricordare solo i principalissimi, incomincio dal famoso Oidio o Crittogama della vite ( Oidium Tuckeri).
Tutti voi conoscete questa gravissima malattia, che danneggia specialmente i grappoli, facendone spaccare e disseccare gli acini: Voi sapete che si combatte con lo zolfo in polvere. Quello che voglio raccomandarvi è di ricorrere a zolfo di ottima qualità, cioè di grande finezza, e di purezza elevata; in secondo luogo di scegliere dei buoni apparecchi solfatori.
Oggi vi sono delle solforatrici a zaino, che permettono di realizzare una notevolissima economia di mano d’opera e di zolfo, e di distribuire questo con la maggior uniformità. Ancora bisogna por mente all’epoca e al numero delle solforazioni. Di solito una prima solforazione è bene farla quando i germogli sono lunghi 8/10 centimetri. Questa si fa con zolfo ramato, che ha un’efficacia contro un’altra malattia che vedremo in seguito. Una seconda, pure con zolfo ramato, si fa durante la fioritura della vite. Una terza quando il frutto è allegato ed è grosso come un pisello. Questa si può fare con zolfo semplice; e così anche quelle che si rendessero necessarie dopo stanno momento.
Giacché il numero di questi trattamenti non può essere sempre uguale, ma dipende dall’andamento della stagione e dallo sviluppo della malattia. Superfluo avvertire che bisogna evitare le giornate di vento.
L’altro malanno, pure notissimo, è la Peronospora (Plasmopara viticola). Voi tutti sapete com’essa si presenta: sulle foglie produce delle macchie caratteristiche, candide inferiormente, gialle e poi brune superiormente; sui tralci dà luogo a delle macchie brunastre; sui grappoli può colpire gli acini, facendo loro assumere un colore cuoio, o i raspi, facendoli sembrare allessati. I rimedi contro la peronospora son tutti a base di composti di rame. Il più noto è la cosiddetta poltiglia bordolese, costituita da 1 kg di solfato di rame e 1 kg di calce sciolti in 1 ettolitro di acqua. Per essere sicuri che la poltiglia sia ben fatta si può ricorrere all’uso di certe cartine dette alla fenoftaleina, immergendole di tanto in tanto nella soluzione di solfato di rame ed aggiungendo in questa la soluzione di solfato di rame ed aggiungendo in questa la soluzione di calce fino a che la cartina incomincia a diventar rosa. Un rimedio che oggi va acquistando molte simpatie fra i viticoltori, perché toglie dall’imbarazzo della preparazione di questa poltiglia, è la cosiddetta Pasta Caffaro, che è a base di ossicloruro di rame, e che, sciolta nell’acqua, da una poltiglia che si usa come la bordolese. Inoltre, ottimo rimedio, complementare, soprattutto per proteggere i teneri grappolini, è lo zolfo ramato al 3 o 5 per cento, di cui si parlava poco fa.
Ciò che ha molta importanza per un’efficace lotta contro la peronospora, è l’eseguire i trattamenti a tempo debito e con molta diligenza. Per quanto riguarda l’epoca, il primo trattamento è quello con lo zolfo ramato sui germogli lunghi 8-10 centimetri di cui abbiam già detto. Un secondo da farsi una ventina di giorni dopo con le poltiglie liquide; subito dopo si farà il 2° trattamento con zolfo ricordato parlando dell’oidio. Poi i trattamenti liquidi si dovran ripetere quante volte l’andamento della stagione, favorevole alla malattia, li renderà necessari, tenendo presente che sarà sempre opportuno fare un’irrorazione subito dopo la caduta della corolla dei fiori, ed un’altra al momento della mietitura. Si comprende che, se subito dopo un trattamento cada una pioggia violenta, bisognerà rinnovarlo. Ho detto che questi trattamenti devono essere fatti con diligenza. Occorrono innanzi tutto delle buone pompe irroratrici, capaci di far una minuta e uniforme polverizzazione del liquido. Occorre aver dei buoni operai, che badino a far cadere il liquido su ambo le pagine delle foglie e sui grappoli; che procedano di un passo regolare e non troppo rapido. In questa lotta, il voler economizzare sulla qualità degli apparecchi o di rimedi, o di voler fare troppo presto. È la peggiore delle speculazioni.
Un’altra malattia, fortunatamente meno diffusa delle precedenti, ma che tuttavia è bene ricordare, è l’Antracnosi ( Gloeosporium ampelophagum ): Essa si presenta sotto forma di postule a margini neri e sollevati, con la parte interna di colore bruno. Queste macchie si trovano sui germogli, sulle foglie , sui grappolini in fiore e sugli acini d’uva già sviluppati. Naturalmente, se gli organi colpiti sono molto teneri, essi disseccano; in caso diverso restano più o meno imperfetti e possono svilupparsi regolarmente. Sullo sviluppo di questa malattia influisce molto l’umidità dell’ambiente. Perciò uno dei migliori mezzi per prevenirla è quello di evitare che nel vigneto ristagni umidità, e, dove questa minaccia d’essere eccessiva, di allevare alte le viti. Come rimedi, molto indicato durante il riposo della vegetazione, appena fatta la potatura pennellare le ferite, i tralci ed il ceppo, con una soluzione di 25 kg di solfato ferroso, e da 3 a 5 kg di acido solforico in 1 ettolitro di acqua. E’ bene fare un paio di pennellature alla distanza di 10-15 giorni. Di rimedi curativi, propriamente detti, non se ne conoscono di sicuramente efficaci.
Una malattia che purtroppo non è rara è il Marciume radicale ( Dematophora necatrix-Armillaria mellea ). Le viti colpite da questo malanno accusano segni manifesti di sofferenza, vegetazione meschina e raggrinzita, aspetto del ceppo cespuglioso. Le radici son più o meno profondamente marcite, con odore di funghi freschi; su di esse non è difficile trovare una sorta una sorta di filamenti biancastri.
Talora dopo le piogge autunnali, ai piedi dei ceppi compaiono, dei gruppi di piccoli funghi a cappello, giallognoli. Purtroppo quando la vite è colpita da marciume non resta che estirparla al più presto. Poi occorre ben disinfettare il terreno, lavorandolo profondamente, mescolandovi forti dosi di calce viva, o anche irrorandolo abbondantemente son soluzioni di solfato di rame al 3%, oppure iniettandovi 70-80 grammi di solfuro di carbonio per metro quadrato. Sarà poi sempre prudente non ripiantarvi le viti prima di due o tre anni.
Anche più frequente è un’altra malattia: la Muffa grigia dell’uva (botrytis cinerea ), che voi purtroppo trovate di sovente sui vostri grappoli negli autunni piovosi. Voi sapete come, quando si sviluppi in abbondanza, essa possa distruggere buona parte del raccolto, e come anche quel poco che rimane dia un vino di pessima qualità.
Rimedi sicuri disgraziatamente, non se ne conoscono. Si possono tentare delle polverizzazioni con una miscela di: calce stacciata, parti 85 e permanganato di potassio in polvere, parti 15; oppure: bisolfito di calcio, parti 10 e argilla in polvere, parti 90. Due parole ancora su qualche malattia dell’ultimo gruppo: quelle cioè che non son dovute agli attacchi di nemici, ne animali ne vegetali; quelle in una parola che si dicono : malattie fisiologiche.
Una delle più importanti di queste è certamente la cosiddetta: Clorosi.
Essa si manifesta con un ingiallimento più o meno marcato delle foglie della pianta. Nella maggior parte dei casi è dovuta al cattivo adattamento delle viti americane al calcare contenuto in quantità eccessiva nel terreno. Per difendersi da questo malanno, è bene innanzitutto scegliere viti che ben si adattino al terreno ( ricordatevi quanto si diceva l’altra sera). Ma se ormai la malattia s’è manifestata, bisogna cercare di curarla. Ciò si può fare seguendo il metodo consigliato dal dottor Rességuier; cioè spennellando il ceppo, i tralci e le ferite, subito dopo la potatura, con una soluzione di solfato ferroso al 40%. Buone anche le irrorazioni alle foglie con soluzioni al ½ % di solfato ferroso. E’ bene anche sotterrare ai piedi delle viti da 100 a 300 grammi di solfato ferroso in cristalli.
Una malattia ben più preoccupante, perché finora non se ne conosce la vera causa, è il Roncet, di cui già un’altra volta vi ho fatto parola. Esso si manifesta con un accorciamento singolare dei tralci (donde il nome francese di court noué ), con un frastagliamento anche più strano delle foglie, una infecondità ed una debolezza grave di tutta la pianta, che in pochi anni finisce col morire. Questo malanno è purtroppo assai frequente su certe viti americane ( specialmente sulla Rupestris du Lot ), ed anche su alcuni vitigni nostrani, come la Barbera, che, quand’è cosi malata, si dice riccia.
Quel che è peggio è che, finora, non si conosce ancora un rimedio sicuro. Per ora non c’è che di evitare di prendere, per far talee, dei tralci da ceppi anche solo sospetti di roncet; e di non ripiantar subito un’altra vite dove una è morta per questa malattia. Lasciate invece una buca aperta, in modo che il terreno senta l’azione dei calori estivi e dei freddi invernali, e seminatevi, se volete, per un anno o due dei cereali, prima di rimettervi le viti.
Un altro malanno, che può esser dovuto a cause diverse, è la colatura o aborto dei fiori. Voi sapete che in certe annate, disgraziatamente, dopo una promettentissima fioritura si finisce col restare con pochi e meschini grappoli d’uva. Il male può essere dovuto ad una sovrabbondanza di succhi molto acquosi nella vite, sovrabbondanza per lo più favorita da una primavera piovosa. Per cercar di evitare questa colatura, non c’è che da ricorrere all’incisione anulare, ed alle pratiche analoghe come il salasso. Ma la perdita o l’aborto dei fiori può essere dovuto a difetto dei fiori stessi; per esempio, alla sterilità del polline, la quale si verifica abitualmente negli stami ritorti in basso. Allora si può ricorrere all’impollinazione artificiale, raccogliendo una buona provvista di polline ( cioè di quella polverina gialla) da fiori di viti normali, e andando a spargerlo con un soffietto di gomma sopra i grappoli delle viti difettose. L’effetto è per lo più eccellente.
Tutti voi conoscete questa gravissima malattia, che danneggia specialmente i grappoli, facendone spaccare e disseccare gli acini: Voi sapete che si combatte con lo zolfo in polvere. Quello che voglio raccomandarvi è di ricorrere a zolfo di ottima qualità, cioè di grande finezza, e di purezza elevata; in secondo luogo di scegliere dei buoni apparecchi solfatori.
Oggi vi sono delle solforatrici a zaino, che permettono di realizzare una notevolissima economia di mano d’opera e di zolfo, e di distribuire questo con la maggior uniformità. Ancora bisogna por mente all’epoca e al numero delle solforazioni. Di solito una prima solforazione è bene farla quando i germogli sono lunghi 8/10 centimetri. Questa si fa con zolfo ramato, che ha un’efficacia contro un’altra malattia che vedremo in seguito. Una seconda, pure con zolfo ramato, si fa durante la fioritura della vite. Una terza quando il frutto è allegato ed è grosso come un pisello. Questa si può fare con zolfo semplice; e così anche quelle che si rendessero necessarie dopo stanno momento.
Giacché il numero di questi trattamenti non può essere sempre uguale, ma dipende dall’andamento della stagione e dallo sviluppo della malattia. Superfluo avvertire che bisogna evitare le giornate di vento.
L’altro malanno, pure notissimo, è la Peronospora (Plasmopara viticola). Voi tutti sapete com’essa si presenta: sulle foglie produce delle macchie caratteristiche, candide inferiormente, gialle e poi brune superiormente; sui tralci dà luogo a delle macchie brunastre; sui grappoli può colpire gli acini, facendo loro assumere un colore cuoio, o i raspi, facendoli sembrare allessati. I rimedi contro la peronospora son tutti a base di composti di rame. Il più noto è la cosiddetta poltiglia bordolese, costituita da 1 kg di solfato di rame e 1 kg di calce sciolti in 1 ettolitro di acqua. Per essere sicuri che la poltiglia sia ben fatta si può ricorrere all’uso di certe cartine dette alla fenoftaleina, immergendole di tanto in tanto nella soluzione di solfato di rame ed aggiungendo in questa la soluzione di solfato di rame ed aggiungendo in questa la soluzione di calce fino a che la cartina incomincia a diventar rosa. Un rimedio che oggi va acquistando molte simpatie fra i viticoltori, perché toglie dall’imbarazzo della preparazione di questa poltiglia, è la cosiddetta Pasta Caffaro, che è a base di ossicloruro di rame, e che, sciolta nell’acqua, da una poltiglia che si usa come la bordolese. Inoltre, ottimo rimedio, complementare, soprattutto per proteggere i teneri grappolini, è lo zolfo ramato al 3 o 5 per cento, di cui si parlava poco fa.
Ciò che ha molta importanza per un’efficace lotta contro la peronospora, è l’eseguire i trattamenti a tempo debito e con molta diligenza. Per quanto riguarda l’epoca, il primo trattamento è quello con lo zolfo ramato sui germogli lunghi 8-10 centimetri di cui abbiam già detto. Un secondo da farsi una ventina di giorni dopo con le poltiglie liquide; subito dopo si farà il 2° trattamento con zolfo ricordato parlando dell’oidio. Poi i trattamenti liquidi si dovran ripetere quante volte l’andamento della stagione, favorevole alla malattia, li renderà necessari, tenendo presente che sarà sempre opportuno fare un’irrorazione subito dopo la caduta della corolla dei fiori, ed un’altra al momento della mietitura. Si comprende che, se subito dopo un trattamento cada una pioggia violenta, bisognerà rinnovarlo. Ho detto che questi trattamenti devono essere fatti con diligenza. Occorrono innanzi tutto delle buone pompe irroratrici, capaci di far una minuta e uniforme polverizzazione del liquido. Occorre aver dei buoni operai, che badino a far cadere il liquido su ambo le pagine delle foglie e sui grappoli; che procedano di un passo regolare e non troppo rapido. In questa lotta, il voler economizzare sulla qualità degli apparecchi o di rimedi, o di voler fare troppo presto. È la peggiore delle speculazioni.
Un’altra malattia, fortunatamente meno diffusa delle precedenti, ma che tuttavia è bene ricordare, è l’Antracnosi ( Gloeosporium ampelophagum ): Essa si presenta sotto forma di postule a margini neri e sollevati, con la parte interna di colore bruno. Queste macchie si trovano sui germogli, sulle foglie , sui grappolini in fiore e sugli acini d’uva già sviluppati. Naturalmente, se gli organi colpiti sono molto teneri, essi disseccano; in caso diverso restano più o meno imperfetti e possono svilupparsi regolarmente. Sullo sviluppo di questa malattia influisce molto l’umidità dell’ambiente. Perciò uno dei migliori mezzi per prevenirla è quello di evitare che nel vigneto ristagni umidità, e, dove questa minaccia d’essere eccessiva, di allevare alte le viti. Come rimedi, molto indicato durante il riposo della vegetazione, appena fatta la potatura pennellare le ferite, i tralci ed il ceppo, con una soluzione di 25 kg di solfato ferroso, e da 3 a 5 kg di acido solforico in 1 ettolitro di acqua. E’ bene fare un paio di pennellature alla distanza di 10-15 giorni. Di rimedi curativi, propriamente detti, non se ne conoscono di sicuramente efficaci.
Una malattia che purtroppo non è rara è il Marciume radicale ( Dematophora necatrix-Armillaria mellea ). Le viti colpite da questo malanno accusano segni manifesti di sofferenza, vegetazione meschina e raggrinzita, aspetto del ceppo cespuglioso. Le radici son più o meno profondamente marcite, con odore di funghi freschi; su di esse non è difficile trovare una sorta una sorta di filamenti biancastri.
Talora dopo le piogge autunnali, ai piedi dei ceppi compaiono, dei gruppi di piccoli funghi a cappello, giallognoli. Purtroppo quando la vite è colpita da marciume non resta che estirparla al più presto. Poi occorre ben disinfettare il terreno, lavorandolo profondamente, mescolandovi forti dosi di calce viva, o anche irrorandolo abbondantemente son soluzioni di solfato di rame al 3%, oppure iniettandovi 70-80 grammi di solfuro di carbonio per metro quadrato. Sarà poi sempre prudente non ripiantarvi le viti prima di due o tre anni.
Anche più frequente è un’altra malattia: la Muffa grigia dell’uva (botrytis cinerea ), che voi purtroppo trovate di sovente sui vostri grappoli negli autunni piovosi. Voi sapete come, quando si sviluppi in abbondanza, essa possa distruggere buona parte del raccolto, e come anche quel poco che rimane dia un vino di pessima qualità.
Rimedi sicuri disgraziatamente, non se ne conoscono. Si possono tentare delle polverizzazioni con una miscela di: calce stacciata, parti 85 e permanganato di potassio in polvere, parti 15; oppure: bisolfito di calcio, parti 10 e argilla in polvere, parti 90. Due parole ancora su qualche malattia dell’ultimo gruppo: quelle cioè che non son dovute agli attacchi di nemici, ne animali ne vegetali; quelle in una parola che si dicono : malattie fisiologiche.
Una delle più importanti di queste è certamente la cosiddetta: Clorosi.
Essa si manifesta con un ingiallimento più o meno marcato delle foglie della pianta. Nella maggior parte dei casi è dovuta al cattivo adattamento delle viti americane al calcare contenuto in quantità eccessiva nel terreno. Per difendersi da questo malanno, è bene innanzitutto scegliere viti che ben si adattino al terreno ( ricordatevi quanto si diceva l’altra sera). Ma se ormai la malattia s’è manifestata, bisogna cercare di curarla. Ciò si può fare seguendo il metodo consigliato dal dottor Rességuier; cioè spennellando il ceppo, i tralci e le ferite, subito dopo la potatura, con una soluzione di solfato ferroso al 40%. Buone anche le irrorazioni alle foglie con soluzioni al ½ % di solfato ferroso. E’ bene anche sotterrare ai piedi delle viti da 100 a 300 grammi di solfato ferroso in cristalli.
Una malattia ben più preoccupante, perché finora non se ne conosce la vera causa, è il Roncet, di cui già un’altra volta vi ho fatto parola. Esso si manifesta con un accorciamento singolare dei tralci (donde il nome francese di court noué ), con un frastagliamento anche più strano delle foglie, una infecondità ed una debolezza grave di tutta la pianta, che in pochi anni finisce col morire. Questo malanno è purtroppo assai frequente su certe viti americane ( specialmente sulla Rupestris du Lot ), ed anche su alcuni vitigni nostrani, come la Barbera, che, quand’è cosi malata, si dice riccia.
Quel che è peggio è che, finora, non si conosce ancora un rimedio sicuro. Per ora non c’è che di evitare di prendere, per far talee, dei tralci da ceppi anche solo sospetti di roncet; e di non ripiantar subito un’altra vite dove una è morta per questa malattia. Lasciate invece una buca aperta, in modo che il terreno senta l’azione dei calori estivi e dei freddi invernali, e seminatevi, se volete, per un anno o due dei cereali, prima di rimettervi le viti.
Un altro malanno, che può esser dovuto a cause diverse, è la colatura o aborto dei fiori. Voi sapete che in certe annate, disgraziatamente, dopo una promettentissima fioritura si finisce col restare con pochi e meschini grappoli d’uva. Il male può essere dovuto ad una sovrabbondanza di succhi molto acquosi nella vite, sovrabbondanza per lo più favorita da una primavera piovosa. Per cercar di evitare questa colatura, non c’è che da ricorrere all’incisione anulare, ed alle pratiche analoghe come il salasso. Ma la perdita o l’aborto dei fiori può essere dovuto a difetto dei fiori stessi; per esempio, alla sterilità del polline, la quale si verifica abitualmente negli stami ritorti in basso. Allora si può ricorrere all’impollinazione artificiale, raccogliendo una buona provvista di polline ( cioè di quella polverina gialla) da fiori di viti normali, e andando a spargerlo con un soffietto di gomma sopra i grappoli delle viti difettose. L’effetto è per lo più eccellente.
mercoledì 13 aprile 2011
diciassettesima puntata
Quando la nostra comitiva entrò nella sala del Cavalier Prosdocimo, trovò un insolito apparato… di forze sulla tavola. Nel mezzo, alcune bottiglie dal collo rivestito di una grossa stagnola, che il sor Lorenzo, maestro comunale, e uomo un po’ più di mondo degli altri, riconobbe tosto per bottiglie di spumante; poi un vassoio di alti calici scintillanti; poi delle alzate ricolme di una svariata e abbondante pasticceria casalinga, che spandeva nell’aria un profumino appetitoso. Si capiva che quella era una serata solenne.
Amici miei, incomincio il Cavaliere, con voce alquanto commossa, eccoci giunti al termine delle nostre serate viticole. Questa sarà l’ultima. E non vi dispiaccia che in quest’ultima io mi occupi delle avversità della vite. Argomento triste, mi direte, per finire il nostro corso; ma argomento capitale, che oggi più che mai è doveroso prendere in esame. Purtroppo, a voler parlare un po’ diffusamente di tutte le avversità della vite, ci sarebbe da continuare per un anno. Io quindi non potrò che accennare, nel modo più breve e telegrafico possibile, alle principalissime: a quelle soprattutto che interessano la nostra viticoltura. Alcune di queste avversità sono dovute alle avverse meteore; altre a nemici animali, altre a nemici vegetali; altre a cause più misteriose, non sempre ben note, che si dicono fisiologiche. Incominciamo dalle prime, brevissimamente:
La più grave delle avversità meteoriche sarebbe la grandine.
Disgraziatamente, di rimedi veramente pratici contro di essa non se ne conoscono. Per ora, non c’è che d’augurarsi di trovare una buona forma di assicurazione contro i danni di questo flagello. Andiamo avanti.
Gravi, in molti luoghi ed in certe annate, sono le brinate primaverili. Rimedio ottimo contro di esse: le nubi artificiali che si possono produrre bruciando qua e là nei vigneti dei mucchi di sostanze capaci di fare molto fumo (erbacce, strame, sarmenti umidi, catrame ecc.) Bisogna, nella stagione pericolosa, osservare il termometro verso le ore tre del mattino: se la temperatura scende verso 2°, la brina è quasi certa, e bisogna accendere i fuochi. Ma perché queste nubi riescano efficaci, bisogna che siano fatte da tutti viticoltori di una regione, e non da uno solo di buona volontà!
Talora la pioggia può riuscir dannosa, specialmente alla fioritura. Poco c’è da fare al riguardo: tutt’al più, ricorrere all’incisione anulare per scongiurare la colatura. Tal’altra. Durante i grandi calori, la vite è colpita da un colpo di sole o apoplessia, e d’un tratto mostra tutte le foglie disseccate. Purtroppo, un rimedio diretto in questi casi non c’è!
Passiamo ai nemici animali. Dio, che esercito! In prima linea, la fillossera. Noi già la conosciamo. Subito dopo, per gravità dei danni io pongo le tignuole dell’uva.
Male bestie davvero! Voi conoscete quei bacherozzoli che vivono negli acini d’uva: ebbene, essi nascono da uova deposte da due specie di farfalline ( gli scienziati le chiamano:Cochylis ambiguella e Polychrosis botrana. Le prime farfalle compaiono a maggio; da esse nascono dei piccoli bruchi che distruggono i fiori della vite, costruendosi delle specie di nidi, dall’aspetto di grovigli di seta. In giugno, questi bruchi si trasformano in crisalidi entro dei bozzo letti ( come fa il baco da seta); poi da queste escono nuove farfalle, che in luglio depongono nuove uova. Da queste, ai primi d’agosto nascono altri bruchi, che entrano negli acini dell’uva. I bruchi della Cochylis vi rimangono fino all’autunno; quelli della Polychrosis danno una terza generazione di farfalle. Tutti però svernano sotto forma di crisalidi, entro bozzoletti nascosti sotto le corteccie dei ceppi, o dei pali, o dentro gli astucci terminali delle canne. Come difenderci da questi terribili nemici? Ahimè! La cosa è difficile, soprattutto per chi ha grandi vigneti da curare.
Tuttavia qualche rimedio c’è:Buona cosa, in inverno spuntare le canne, e bruciare queste punte; scortecciare i ceppi con dei guanti metallici; metter attorno ai ceppi dei batuffoli di stracci in cui i bruchi vadano ad incrisalidarsi; poi raccoglierli e distruggerli. Buon rimedio quello di raccogliere nella prima decade d’agosto glia acini bacati e distruggerli, per impedire che i bruchi continuino fino alla vendemmia i loro guasti. Meglio ancora sarebbe poter distribuire sulle viti qualche rimedio o insetticida, che distruggesse i bruchi. Fra i migliori insetticidi proposti, i migliori sono ancora quelli a base di estratto di tabacco: aggiungendo cioè un po’ meno di 2Kg. di questo estratto per ogni ettolitro della solita poltiglia di solfato di rame che s’usa contro la peronospora; oppure sciogliendo 1.5-2 Kg. d’estratto di tabacco e 1 di sapone molle in un ettolitro di acqua, e applicando questa emulsione con una buona pompa a getto intermittente per ben colpire i grappolini. Ma ricordatevi che questo trattamento dev’esser fatto presto, verso la fine di maggio o ai primi di giugno, prima che i bruchi ingrossino.
Altri insetti divorano il fogliame della vite ed alcuni anche le radici: tale il Maggiolino ( Melolontha vulgaris); gli Otiorrinchi ( Otiorrhinchus sulcatus, ecc.); il Sigario ( Rhynchites betuleti), che costruisce con le foglie delle specie di sigari; lo Scrivano ( Eumolpus vitis ), l’Altica ( altica ampelophaga), ecc. Per questi vari insetti, purtroppo i rimedi non sono facili. Si cerchi di raccoglierli, facendoli cadere su dei lenzuoli stesi a terra, approfittando delle ore in cui sono addormentati; o si facciano irrorazioni sulle viti con soluzioni di arseniato di piombo. Ricordatevi però che questo è un terribile veleno, e che, oltre all’usarlo con tutte le cautele, bisogna limitarsi a somministrarlo entro il mese di giugno, perché più tardi potrebbe inquinare le uve. Ancora tra gli insetti, potrei ricordare alcune Cocciniglie, che vivono talvolta sulla vite. Raramente riescono molto dannose: in questi casi, si possono combattere con pennellature o irrorazione di 1 litro di petrolio e 1 Kg. di sapone molle per ettolitro di acqua.
Amici miei, incomincio il Cavaliere, con voce alquanto commossa, eccoci giunti al termine delle nostre serate viticole. Questa sarà l’ultima. E non vi dispiaccia che in quest’ultima io mi occupi delle avversità della vite. Argomento triste, mi direte, per finire il nostro corso; ma argomento capitale, che oggi più che mai è doveroso prendere in esame. Purtroppo, a voler parlare un po’ diffusamente di tutte le avversità della vite, ci sarebbe da continuare per un anno. Io quindi non potrò che accennare, nel modo più breve e telegrafico possibile, alle principalissime: a quelle soprattutto che interessano la nostra viticoltura. Alcune di queste avversità sono dovute alle avverse meteore; altre a nemici animali, altre a nemici vegetali; altre a cause più misteriose, non sempre ben note, che si dicono fisiologiche. Incominciamo dalle prime, brevissimamente:
La più grave delle avversità meteoriche sarebbe la grandine.
Disgraziatamente, di rimedi veramente pratici contro di essa non se ne conoscono. Per ora, non c’è che d’augurarsi di trovare una buona forma di assicurazione contro i danni di questo flagello. Andiamo avanti.
Gravi, in molti luoghi ed in certe annate, sono le brinate primaverili. Rimedio ottimo contro di esse: le nubi artificiali che si possono produrre bruciando qua e là nei vigneti dei mucchi di sostanze capaci di fare molto fumo (erbacce, strame, sarmenti umidi, catrame ecc.) Bisogna, nella stagione pericolosa, osservare il termometro verso le ore tre del mattino: se la temperatura scende verso 2°, la brina è quasi certa, e bisogna accendere i fuochi. Ma perché queste nubi riescano efficaci, bisogna che siano fatte da tutti viticoltori di una regione, e non da uno solo di buona volontà!
Talora la pioggia può riuscir dannosa, specialmente alla fioritura. Poco c’è da fare al riguardo: tutt’al più, ricorrere all’incisione anulare per scongiurare la colatura. Tal’altra. Durante i grandi calori, la vite è colpita da un colpo di sole o apoplessia, e d’un tratto mostra tutte le foglie disseccate. Purtroppo, un rimedio diretto in questi casi non c’è!
Passiamo ai nemici animali. Dio, che esercito! In prima linea, la fillossera. Noi già la conosciamo. Subito dopo, per gravità dei danni io pongo le tignuole dell’uva.
Male bestie davvero! Voi conoscete quei bacherozzoli che vivono negli acini d’uva: ebbene, essi nascono da uova deposte da due specie di farfalline ( gli scienziati le chiamano:Cochylis ambiguella e Polychrosis botrana. Le prime farfalle compaiono a maggio; da esse nascono dei piccoli bruchi che distruggono i fiori della vite, costruendosi delle specie di nidi, dall’aspetto di grovigli di seta. In giugno, questi bruchi si trasformano in crisalidi entro dei bozzo letti ( come fa il baco da seta); poi da queste escono nuove farfalle, che in luglio depongono nuove uova. Da queste, ai primi d’agosto nascono altri bruchi, che entrano negli acini dell’uva. I bruchi della Cochylis vi rimangono fino all’autunno; quelli della Polychrosis danno una terza generazione di farfalle. Tutti però svernano sotto forma di crisalidi, entro bozzoletti nascosti sotto le corteccie dei ceppi, o dei pali, o dentro gli astucci terminali delle canne. Come difenderci da questi terribili nemici? Ahimè! La cosa è difficile, soprattutto per chi ha grandi vigneti da curare.
Tuttavia qualche rimedio c’è:Buona cosa, in inverno spuntare le canne, e bruciare queste punte; scortecciare i ceppi con dei guanti metallici; metter attorno ai ceppi dei batuffoli di stracci in cui i bruchi vadano ad incrisalidarsi; poi raccoglierli e distruggerli. Buon rimedio quello di raccogliere nella prima decade d’agosto glia acini bacati e distruggerli, per impedire che i bruchi continuino fino alla vendemmia i loro guasti. Meglio ancora sarebbe poter distribuire sulle viti qualche rimedio o insetticida, che distruggesse i bruchi. Fra i migliori insetticidi proposti, i migliori sono ancora quelli a base di estratto di tabacco: aggiungendo cioè un po’ meno di 2Kg. di questo estratto per ogni ettolitro della solita poltiglia di solfato di rame che s’usa contro la peronospora; oppure sciogliendo 1.5-2 Kg. d’estratto di tabacco e 1 di sapone molle in un ettolitro di acqua, e applicando questa emulsione con una buona pompa a getto intermittente per ben colpire i grappolini. Ma ricordatevi che questo trattamento dev’esser fatto presto, verso la fine di maggio o ai primi di giugno, prima che i bruchi ingrossino.
Altri insetti divorano il fogliame della vite ed alcuni anche le radici: tale il Maggiolino ( Melolontha vulgaris); gli Otiorrinchi ( Otiorrhinchus sulcatus, ecc.); il Sigario ( Rhynchites betuleti), che costruisce con le foglie delle specie di sigari; lo Scrivano ( Eumolpus vitis ), l’Altica ( altica ampelophaga), ecc. Per questi vari insetti, purtroppo i rimedi non sono facili. Si cerchi di raccoglierli, facendoli cadere su dei lenzuoli stesi a terra, approfittando delle ore in cui sono addormentati; o si facciano irrorazioni sulle viti con soluzioni di arseniato di piombo. Ricordatevi però che questo è un terribile veleno, e che, oltre all’usarlo con tutte le cautele, bisogna limitarsi a somministrarlo entro il mese di giugno, perché più tardi potrebbe inquinare le uve. Ancora tra gli insetti, potrei ricordare alcune Cocciniglie, che vivono talvolta sulla vite. Raramente riescono molto dannose: in questi casi, si possono combattere con pennellature o irrorazione di 1 litro di petrolio e 1 Kg. di sapone molle per ettolitro di acqua.
lunedì 4 aprile 2011
sedicesima puntata
Le nostre serate volgono al termine, incominciò il Cavaliere, con dispiacere mio, ma forse con piacere vostro. Sento perciò il dovere di condensare le ultime nozioni più importanti, per non sentirmi poi troppi rimorsi di coscienza, per aver lasciate lacune troppo gravi: E perciò stassera credo venuto il momento di parlarvi un po’ più particolarmente delle principalissime viti americane, che possono essere necessarie per la ricostruzione dei vostri vigneti, il giorno in cui la fillossera ce li distruggerà. Non ripeterò ciò che già un’altra sera v’ho detto sui problemi che debbono tenersi presenti prima di accingersi a tale impresa di ricostituzione: impresa non facile, ne priva di spiacevoli sorprese se non si procede con molta prudenza. Mi limito invece a farvi conoscere qualcuna fra le viti americane che oggi più sono apprezzate. Dico subito che esse appartengono a tre specie diverse: Vitis Riparia, Vitis Rupestris, Vitis Berlandieri. Alcune sono varietà pure, altre sono ibridi, cioè incroci dell’una specie con l’altra.
Incominciamo dalle prime:
La Riparia è una delle più preziose viti americane, che si usi come soggetto per gl’innesti delle vite nostrane. Senza starvela a descrivere, mi limito a presentarvene la figura. Voi vedete com’essa abbia delle foglie caratteristiche, a forma quasi di cuore, con dentatura molto lunga, slanciata ed acuta, di grandezza sempre notevole, di color verde intenso, talora brillante, per lo più sprovviste di peli, cioè glabre. E’ vite molto vigorosa, i cui tralci diventano in breve lunghissimi, e , con le loro foglie di grandi dimensioni, danno alla pianta una vegetazione lussureggiante. Ottime viti ho detto, soprattutto due sue varietà: la Riparia grande glabre e la Riparia Gloire (de Montpellier). Ma per dar buoni risultati, essa vuole condizioni di terreno adatte: e precisamente un terreno mezzano, profondo, fresco, ricco. In terreni aridi, o grossolani, o superficiali, o magri essa vegeta stentatamente e non rivela molte sue virtù. Non solo: ma essa teme molto il calcare; se questo componente si trova sul terreno in proporzioni superiori al 10/12 per cento, la Riparia ingiallisce, intristisce, soffre gravemente di clorosi. Coltivata in terreni adatti, essa mostra invece una vigoria notevole, una resistenza alla fillossera elevatissima, e le viti innestate su di essa forniscono una ottima produzione.
La seconda specie americana importantissima è : La Rupestris.
Essa ha un aspetto e un comportamento assai diverso dalla precedente. E’ una vite che assume una forma cespugliosa, con dimensioni molto ridotte della Riparia; con foglie piccole, assai più larghe che lunghe, tondeggianti, con una lucentezza sovente quasi metallica, con un seno peziolare talvolta straordinariamente aperto, con un colore sovente che tende al bronzato, quasi rossiccio: I suoi tralci non s’allungano mai di molto, ma piuttosto si ramificano notevolmente. La Rupestris presenta numerose varietà, tutte coltivate su vasta scala: per non ricordarvene che qualcuna delle principali, vi nominerò la Rupestris metallica ( così detta per il colore delle sue foglie); la Rupestris du Lot (caratterizzata da un seno peziolare a graffa); la Rupestris Martin, la Rupestris Ganzin, la Rupestris Mission, ecc.
In generale le Rupestris s’adattano a terreni assai diversi da quelli delle Riparie. Esse infatti amano terreni piuttosto magri, grossolani, ciottolosi, asciutti resistendo abbastanza bene alla siccità, grazie alle loro radici che s’approfondiscono molto nel terreno. Non bisogna però credere che non abbiano bisogno di acqua: al contrario, occorre che esse ne trovino ad una certa profondità, se no soffrono molto la siccità. Tollerano il calcare meglio della Riparia, resistendo anche al 30/35 per cento di calcare: ma non di più. La loro resistenza alla fillossera, benché un po’ inferiore a quella della riparia, è però praticamente sufficiente. Tuttavia in questi ultimi tempi le Rupestris, specialmente la Du Lot, han dato luogo a discussioni poco confortanti. In più d’un caso, gl’inconvenienti che esse hanno mostrato sono stati gravi. Ricordo la colatura dei fiori, cui sovente sono andati incontro le viti nostrane innestate su di esse (specialmente se in terreni fertili); ricordo il frequente sviluppo su di esse di una grave malattia, detta Roncet: E’ perciò che la coltivazione delle varietà di Rupestris va alquanto restringendosi: Tuttavia esse trovano sempre utili applicazioni in terreni poco fertili, ciottolosi, alquanto calcari, asciutti ma non troppo siccitosi.
La terza specie, importantissima di viti americane è: La Berlandieri.
Questa vite ha caratteri importanti. Come aspetto e comportamento si direbbe intermedia fra la Riparia e la Rupestris. Ha tralci angolosi, foglie di media grandezza, quasi rotonde, d’un bel colore verde cupo lucente alla pagina superiore; d’un verde più pallido, piuttosto tomentose inferiormente. Le due varietà più conosciute e adoperate di questa specie sono la Berlandieri Rességuier n° 1 e la n° 2. Entrambe hanno caratteristiche press’a poco eguali. Quella che costituisce il loro merito principale è la straordinaria resistenza ai terreni molto calcari. Fino al 70 e più per cento di calcare è bene tollerato da queste viti. Anche alla siccità esse resistono in modo notevole; per cui esse sarebbero degli ottimi portainnesti, se non avessero un difetto che certamente è grave: quello di essere difficilissime da moltiplicarsi per talea. La Berlandieri difatti stenta moltissimo ad emettere radici dai tralci sotterrati, ciò che è causa di numerose fallanze. E poiché i metodi che possono adottarsi per ovviare a questo inconveniente non sono tutti facili ad applicarsi, così la moltiplicazione per talea della Berlandieri è bene lasciarla fare ai vivaisti di professione. Questo difetto grave della Berlandieri s’è però di molto diminuito nei suoi ibridi con le specie precedenti. E diciamo qualcosa dei principali ibridi americani, che oggi possono adoprarsi come portainnesti nei vigneti fillosserati.
Un primo gruppo importantissimo di questi ibridi è quello delle Riparia x Rupestris.
Non voglio confondervi la testa con molte cose: mi limito a ricordarvene tre, tutti buoni: il 3309, il 3306, il 101-14 ( come v’ho già detto, questi ibridi sono distinti dal numero che portavano nei vivai degli ibridatori che li hanno creati).
La Riparia x Rupestris 3309 s’addice a terreni di media fertilità, piuttosto asciutti; supporta fino al 35 per cento di calcare; resiste ottimamente alla fillossera; presenta un ottimo attecchimento per tale e per innesto; dà grande fecondità alle vite nostrane che sovr’essa s’innestano.
La Riparia x Rupestris 3306 s’adatta a terreni argillo-calcari; piuttosto freschi; resiste fino al 25/30 per cento di calcare; resiste ottimamente alla fillossera; attecchisce bene per talea e abbastanza bene per innesto.
La Riparia x Rupestris 101-14 s’adatta a terreni argillosi piuttosto compatti poco calcari ( con meno del 20 per cento), non troppo asciutti; resiste bene alla fillossera; riesce bene per talea e per innesto; da molta fecondità alle vite nostrane.
Altro gruppo importantissimo di ibridi è quello delle Berlandieri x Riparia.
In essi trovansi riuniti molti dei pregi della Berlandieri e della Riparia; e rappresentano quindi sovente dei portainnesti preziosi. I principali sono:
La Berlandieri x Riparia 420-A, che s’adatta a terreni molto secchi e calcari, per la grandissima resistenza alla siccità, al calcare ( fino al 70 per cento ), alla fillossera. Attecchisce discretamente bene per talea, bene per innesto; da ai nostri vitigni grande fertilità e precocità.
La Berlandieri x Riparia 420-B, pur essa resistentissima alla siccità, al calcare e alla fillossera; ma un po’ meno vigorosa della precedente.
La Berlandieri x Riparia 157-11, s’adatta a terreni argillo-silicei, anche piuttosto secchi, mediocremente calcari; resiste bene alla fillossera; attecchisce bene per tale e per innesto; è molto rigogliosa.
La Berlandieri x Riparia 34-E, s’adatta a terreni piuttosto freschi, molto calcari (fino al 75 per cento); resiste bene alla fillossera; attecchisce bene per tale, benissimo per innesto.
Un altro gruppo di ibridi è quello delle Berlandieri x Rupestris.
Fra di essi, benché abbiano qualche buon esemplare, non troviamo dei portainnesti così pregiati come nei gruppi precedenti. Ecco tuttavia i più notevoli:
La Berlandieri x Rupestris 219-A, s’adatta a terreni anche secchi, ciottolosi, purché permeabili;resiste bene al calcare e alla fillossera; attecchisce bene per innesto e per talea; è molto vigorosa.
La Berlandieri x Rupestris 301-A, s’adatta a terreni calcari piuttosto freschi; resiste bene alla fillossera; si moltiplica bene per talea e per innesto.
La Berlandieri x Rupestris 17-37, s’adatta a terreni profondi, permeabili, abbastanza calcari ( fino al 60/65 per cento), non eccessivamente secchi. Si moltiplica bene per innesto e talea.
V’è poi un gruppo di ibridi portainnesti, ottenuto dall’incrocio di qualcuna delle specie americane precedenti con la vite europea. Credo bene premettere che in generale questi Ibridi americano x europei, se hanno dei pregi di adattamento ai nostri climi e terreni, hanno però quasi tutti una resistenza alla fillossera minore dei precedenti; resistenza che può anche, in condizioni non troppo favorevoli, diventare insufficiente. Perciò non sarà male raccomandare di essere assai prudenti nel ricorrere a questi ibridi con sangue europeo. I più importanti di questi sono:
Il Chassellas x Berlandieri 41-B, che s’adatta a terreni molto calcari, piuttosto fertili e abbastanza freschi; per quanto in alcuni casi (Sicilia) si mostri prosperoso anche in terreni aridi. La sua resistenza alla fillossera finora si mostra buona.
Il Mourvèdre x Rupestris 1202, s’adatta a terreni profondi, ricchi, freschi e anche molto calcari (65 per cento).E’ molto vigoroso. La resistenza alla fillossera sembra buona.
Il Cabernet x Berlandieri 333-E.M. buono per terreni calcari, dove finora resiste bene alla fillossera.
L’Aramon x Rupestris Ganzin n°1, ve lo metto per ultimo, mentre fino a qualche anno fa si sarebbe dovuto porre in testa agli altri. Ma in questi ultimi tempi esso, specialmente in Sicilia, ha dato luogo ad allarmi impressionanti, poiché sembrava che la sua resistenza alla fillossera fosse del tutto insufficiente. In realtà, questa insufficienza era più che altro dovuta alle cattive condizioni del terreno in cui esso era usato. Tuttavia sarò prudente riservarlo per terreni buoni, freschi, profondi, fertili, non troppo calcari. E, visto che abbiamo portainnesti più sicuri, sarà forse meglio rinunciarvi senz’altro.
Oltre a questi ibridi portainnesti, abbiamo un’altra categoria di ibridi, di cui oggi si fa tanto parlare: quella dei produttori diretti. V’ho già detto altra volta come essi dovrebbero rappresentare la vite ideale dell’avvenire, resistente alla fillossera ed agli altri parassiti, perfettamente adatta ai nostri climi e ai nostri terreni, e capace di darci, senza l’innesto, dell’uva di ottima qualità. Ma v’ho anche detto che, finora, questa vite ideale non s’è ottenuta. Abbiamo molti, troppi vitigni, che hanno una discreta resistenza alla fillossera e che danno un discreto prodotto; ma dal discreto all’ottimo il passo è ancora lungo.
Alcuni di questi produttori diretti sono già vecchiotti. Per lo più questi sono distinti da una resistenza alla fillossera del tutto insufficiente; da un prodotto di qualità mediocre 8per lo più con un aroma e sapore molto accentuato di volpino, o di foxy, che dir si voglia); però da una buona resistenza alle malattie crittogamiche: L’esempio forse migliore di questo gruppo è dato dal Clinton, che è abbastanza largamente coltivato in tutta l’Alta Italia. Abbiamo poi i produttori diretti più recenti, alcuni dei quali notevoli perché discretamente resistenti alla fillossera, ottimamente resistenti alle crittogame, e capaci di dare un prodotto che, se non avrà meriti speciali, avrà almeno sui vecchi produttori diretti il merito di non accusare un foxy troppo accentuato. Alcuni anzi hanno profumo e sapore quasi del tutto franchi. Questi nuovi produttori diretti si conoscono oggi in commercio col nome dell’ibridatore che li ha prodotti, e con un numero. Son quasi tutti a base di sangue di Rupestris e di Vinifera; pochi con Riparia o altre specie. Fra i più importanti cito i seguenti:
Seibel n° 1,156,1000,1020,1077,2007 a frutto nero; 420,857 a frutto bianco.
Couderc n° 4401,7120,28-112,106-46 ad uva nera; 74-17,146-51,175-38,272-60 ad uva bianca.
Castel n° 13317,3639,4308,5819 ad uva nera; 1028,13706,1832 ad uva bianca
Ancora in fama sono oggi : il Parde-Lacoste; il Terras n° 20; il Jouffreau; il Furie n°580, il Chazalon 1, il Chenivesse1, 11.
Per concludere su questi nuovi produttori diretti: quale importanza pratica hanno al presente questi vitigni?
Secondo il mio modo di vedere, senza lasciarsi trascinare da entusiasmi fuori posto, ne da una eccessiva severità, si può ritenere che questi vitigni possono trovar utili applicazioni la dove le condizioni naturali della località non permettono di ottenere dalla vite prodotti di pregi e fama speciali. Dove alla vite non si domanda che un prodotto comune, destinato al consumo locale e popolare; dove alla vite non si possono dedicare molte cure di coltivazione, perché altre piante più importanti, soprattutto erbacee, assorbono la maggior parte del nostro tempo, in queste condizioni i produttori diretti, i quali, se ben scelti, fanno a meno dei trattamenti contro le malattie crittogamiche, ed hanno una notevole rusticità, possono essere proficuamente coltivati. Ma in condizioni diverse da queste, per ora non c’è posto per essi.
Ed ho finito per stassera, riservandomi di chiudere definitivamente le mie chiacchiere una prossima volta.
Incominciamo dalle prime:
La seconda specie americana importantissima è : La Rupestris.
In generale le Rupestris s’adattano a terreni assai diversi da quelli delle Riparie. Esse infatti amano terreni piuttosto magri, grossolani, ciottolosi, asciutti resistendo abbastanza bene alla siccità, grazie alle loro radici che s’approfondiscono molto nel terreno. Non bisogna però credere che non abbiano bisogno di acqua: al contrario, occorre che esse ne trovino ad una certa profondità, se no soffrono molto la siccità. Tollerano il calcare meglio della Riparia, resistendo anche al 30/35 per cento di calcare: ma non di più. La loro resistenza alla fillossera, benché un po’ inferiore a quella della riparia, è però praticamente sufficiente. Tuttavia in questi ultimi tempi le Rupestris, specialmente la Du Lot, han dato luogo a discussioni poco confortanti. In più d’un caso, gl’inconvenienti che esse hanno mostrato sono stati gravi. Ricordo la colatura dei fiori, cui sovente sono andati incontro le viti nostrane innestate su di esse (specialmente se in terreni fertili); ricordo il frequente sviluppo su di esse di una grave malattia, detta Roncet: E’ perciò che la coltivazione delle varietà di Rupestris va alquanto restringendosi: Tuttavia esse trovano sempre utili applicazioni in terreni poco fertili, ciottolosi, alquanto calcari, asciutti ma non troppo siccitosi.
La terza specie, importantissima di viti americane è: La Berlandieri.
Un primo gruppo importantissimo di questi ibridi è quello delle Riparia x Rupestris.
La Riparia x Rupestris 3309 s’addice a terreni di media fertilità, piuttosto asciutti; supporta fino al 35 per cento di calcare; resiste ottimamente alla fillossera; presenta un ottimo attecchimento per tale e per innesto; dà grande fecondità alle vite nostrane che sovr’essa s’innestano.
La Riparia x Rupestris 3306 s’adatta a terreni argillo-calcari; piuttosto freschi; resiste fino al 25/30 per cento di calcare; resiste ottimamente alla fillossera; attecchisce bene per talea e abbastanza bene per innesto.
La Riparia x Rupestris 101-14 s’adatta a terreni argillosi piuttosto compatti poco calcari ( con meno del 20 per cento), non troppo asciutti; resiste bene alla fillossera; riesce bene per talea e per innesto; da molta fecondità alle vite nostrane.
Altro gruppo importantissimo di ibridi è quello delle Berlandieri x Riparia.
In essi trovansi riuniti molti dei pregi della Berlandieri e della Riparia; e rappresentano quindi sovente dei portainnesti preziosi. I principali sono:
La Berlandieri x Riparia 420-A, che s’adatta a terreni molto secchi e calcari, per la grandissima resistenza alla siccità, al calcare ( fino al 70 per cento ), alla fillossera. Attecchisce discretamente bene per talea, bene per innesto; da ai nostri vitigni grande fertilità e precocità.
La Berlandieri x Riparia 420-B, pur essa resistentissima alla siccità, al calcare e alla fillossera; ma un po’ meno vigorosa della precedente.
La Berlandieri x Riparia 157-11, s’adatta a terreni argillo-silicei, anche piuttosto secchi, mediocremente calcari; resiste bene alla fillossera; attecchisce bene per tale e per innesto; è molto rigogliosa.
La Berlandieri x Riparia 34-E, s’adatta a terreni piuttosto freschi, molto calcari (fino al 75 per cento); resiste bene alla fillossera; attecchisce bene per tale, benissimo per innesto.
Un altro gruppo di ibridi è quello delle Berlandieri x Rupestris.
Fra di essi, benché abbiano qualche buon esemplare, non troviamo dei portainnesti così pregiati come nei gruppi precedenti. Ecco tuttavia i più notevoli:
La Berlandieri x Rupestris 219-A, s’adatta a terreni anche secchi, ciottolosi, purché permeabili;resiste bene al calcare e alla fillossera; attecchisce bene per innesto e per talea; è molto vigorosa.
La Berlandieri x Rupestris 301-A, s’adatta a terreni calcari piuttosto freschi; resiste bene alla fillossera; si moltiplica bene per talea e per innesto.
La Berlandieri x Rupestris 17-37, s’adatta a terreni profondi, permeabili, abbastanza calcari ( fino al 60/65 per cento), non eccessivamente secchi. Si moltiplica bene per innesto e talea.
V’è poi un gruppo di ibridi portainnesti, ottenuto dall’incrocio di qualcuna delle specie americane precedenti con la vite europea. Credo bene premettere che in generale questi Ibridi americano x europei, se hanno dei pregi di adattamento ai nostri climi e terreni, hanno però quasi tutti una resistenza alla fillossera minore dei precedenti; resistenza che può anche, in condizioni non troppo favorevoli, diventare insufficiente. Perciò non sarà male raccomandare di essere assai prudenti nel ricorrere a questi ibridi con sangue europeo. I più importanti di questi sono:
Il Chassellas x Berlandieri 41-B, che s’adatta a terreni molto calcari, piuttosto fertili e abbastanza freschi; per quanto in alcuni casi (Sicilia) si mostri prosperoso anche in terreni aridi. La sua resistenza alla fillossera finora si mostra buona.
Il Mourvèdre x Rupestris 1202, s’adatta a terreni profondi, ricchi, freschi e anche molto calcari (65 per cento).E’ molto vigoroso. La resistenza alla fillossera sembra buona.
Il Cabernet x Berlandieri 333-E.M. buono per terreni calcari, dove finora resiste bene alla fillossera.
L’Aramon x Rupestris Ganzin n°1, ve lo metto per ultimo, mentre fino a qualche anno fa si sarebbe dovuto porre in testa agli altri. Ma in questi ultimi tempi esso, specialmente in Sicilia, ha dato luogo ad allarmi impressionanti, poiché sembrava che la sua resistenza alla fillossera fosse del tutto insufficiente. In realtà, questa insufficienza era più che altro dovuta alle cattive condizioni del terreno in cui esso era usato. Tuttavia sarò prudente riservarlo per terreni buoni, freschi, profondi, fertili, non troppo calcari. E, visto che abbiamo portainnesti più sicuri, sarà forse meglio rinunciarvi senz’altro.
Oltre a questi ibridi portainnesti, abbiamo un’altra categoria di ibridi, di cui oggi si fa tanto parlare: quella dei produttori diretti. V’ho già detto altra volta come essi dovrebbero rappresentare la vite ideale dell’avvenire, resistente alla fillossera ed agli altri parassiti, perfettamente adatta ai nostri climi e ai nostri terreni, e capace di darci, senza l’innesto, dell’uva di ottima qualità. Ma v’ho anche detto che, finora, questa vite ideale non s’è ottenuta. Abbiamo molti, troppi vitigni, che hanno una discreta resistenza alla fillossera e che danno un discreto prodotto; ma dal discreto all’ottimo il passo è ancora lungo.
Alcuni di questi produttori diretti sono già vecchiotti. Per lo più questi sono distinti da una resistenza alla fillossera del tutto insufficiente; da un prodotto di qualità mediocre 8per lo più con un aroma e sapore molto accentuato di volpino, o di foxy, che dir si voglia); però da una buona resistenza alle malattie crittogamiche: L’esempio forse migliore di questo gruppo è dato dal Clinton, che è abbastanza largamente coltivato in tutta l’Alta Italia. Abbiamo poi i produttori diretti più recenti, alcuni dei quali notevoli perché discretamente resistenti alla fillossera, ottimamente resistenti alle crittogame, e capaci di dare un prodotto che, se non avrà meriti speciali, avrà almeno sui vecchi produttori diretti il merito di non accusare un foxy troppo accentuato. Alcuni anzi hanno profumo e sapore quasi del tutto franchi. Questi nuovi produttori diretti si conoscono oggi in commercio col nome dell’ibridatore che li ha prodotti, e con un numero. Son quasi tutti a base di sangue di Rupestris e di Vinifera; pochi con Riparia o altre specie. Fra i più importanti cito i seguenti:
Seibel n° 1,156,1000,1020,1077,2007 a frutto nero; 420,857 a frutto bianco.
Couderc n° 4401,7120,28-112,106-46 ad uva nera; 74-17,146-51,175-38,272-60 ad uva bianca.
Castel n° 13317,3639,4308,5819 ad uva nera; 1028,13706,1832 ad uva bianca
Ancora in fama sono oggi : il Parde-Lacoste; il Terras n° 20; il Jouffreau; il Furie n°580, il Chazalon 1, il Chenivesse1, 11.
Per concludere su questi nuovi produttori diretti: quale importanza pratica hanno al presente questi vitigni?
Secondo il mio modo di vedere, senza lasciarsi trascinare da entusiasmi fuori posto, ne da una eccessiva severità, si può ritenere che questi vitigni possono trovar utili applicazioni la dove le condizioni naturali della località non permettono di ottenere dalla vite prodotti di pregi e fama speciali. Dove alla vite non si domanda che un prodotto comune, destinato al consumo locale e popolare; dove alla vite non si possono dedicare molte cure di coltivazione, perché altre piante più importanti, soprattutto erbacee, assorbono la maggior parte del nostro tempo, in queste condizioni i produttori diretti, i quali, se ben scelti, fanno a meno dei trattamenti contro le malattie crittogamiche, ed hanno una notevole rusticità, possono essere proficuamente coltivati. Ma in condizioni diverse da queste, per ora non c’è posto per essi.
Ed ho finito per stassera, riservandomi di chiudere definitivamente le mie chiacchiere una prossima volta.
venerdì 11 febbraio 2011
quindicesima puntata
Pensavo oggi, incominci il Cavalier Prosdocimo, che, siccome “ogni bel ballo stufa”, come dicono i Veneziani, se io non voglio annoiarvi del tutto bisogna che veda di finir presto queste mie chiacchiere: Ed ho quindi deciso di ridurre ai minimi termini quanto ancora mi resterebbe da dirvi, lasciando tutto ciò che non è assolutamente necessario a sapersi.
V’è però un argomento cui non voglio rinunciare, perché è già stato anche troppo trascurato finora, mentre ha tanta importanza per la viticoltura: l’argomento dei sostegni della vite.
Può sembrare strano che i sostegni abbiano una grande importanza. Ed effettivamente sarebbe strano se io con ciò volessi dire che i sostegni servono ad aumentare notevolmente la produzione della vite. Io invece voglio dire quasi il contrario: che cioè, visto che i sostegni non possono troppo direttamente influire sulla produzione della vite, così è per noi molto importante trovar il modo di ridurli al minimo strettamente necessario, economizzando su di ogni più piccola spesa al riguardo.
Una volta quest’argomento aveva poca importanza: le vigne non erano molto estese, e molto estesi erano invece i boschi; il legname quindi abbondava e costava poco. Oggi al contrario sono i boschi che scarseggiano e le vigne che abbondano. Se si aggiunge che il legname trova oggi sempre nuove e più importanti destinazioni in industrie speciali; se si aggiunge che al costo della mano d’opera necessaria per mettere in opera e mantenere all’ordine i sostegni stessi, si comprende come oggi sia importante, ripeto, trovar il modo di far economia in questo capitolo del bilancio viticolo.
Per far economia, bisogna scegliere anzitutto i sostegni più economici. Non bisogna credere che i sostegni più economici sian quelli che costano meno. Anche dei sostegni che si pagano assai cari posson riuscir molto economici, quando il loro costo elevato sia compensato da una lunga durata. Perciò, in generale bisogna cercare di aumentare la durata dei sostegni. Vediamo in quali modi.
Qui dovrei fare prima un po’ di distinzione fra i vari sostegni; e dovrei incominciar a distinguere quelli vivi da quelli morti. Permettetemi di non parlarvi dei vivi, cioè degli alberi cui si marita la vite ( il migliore dei quali resta sempre l’acero), per limitarmi come il breve tempo mi costringe, a quelli morti. Questi possono essere di legno o d’altro materiale. Quelli di legno possono essere pali di varie essenze: robinia, salice, castagno, quercia, olmo, pino.
Una parola sola su uno di essi: la robinia, o falsa acacia. Ed è una parola di lode per questa pianta, altrettanto utile quanto modesta. Io vorrei che voi la coltivaste più di quanto non facciate. Io vedo sovente dei lembi di terreno inutilizzati: sono ciglioni e scarpate di strade, argini di canali, sponde di fiumi o torrenti abbandonate, perché soggette a poco gradite visite delle acque. Ecco tanti terreni da destinare alla robinia. Essa s’accontenta di così poco. Certamente, sui ghiaieti d’un fiume non darà risultati così brillanti come in un buon terreno coltivato; ma appunto perché quello altrimenti non produrrebbe nulla, la robinia diventa preziosa.
Dicevamo, dunque, che occorre cercar di aumentare la durata di questi pali, la quale come sapete, è sempre più o meno breve. Non intendo di parlarvi di tutti i processi ideati a questo scopo; mi accontento di ricordarvene qualcuno.Buon sistema è quello di spalmar la parte del palo che deve andare sottoterra, con del catrame di carbon fossile o meglio anche con del carbolineum. Queste sostanze impediscono all’acqua del terreno di penetrare all’interno dei pali e di farli marcire. Buona cosa, trattandosi di grossi pali di testata, ogni due o tre anni scalzarli presso la superficie del suolo, ripulirne e asciugarne il tratto vicino a terra, e poi pennellarlo con catrame caldo o pece, perché è appunto questo primo tratto che sta sottoterra, che va più soggetto ai danni delle muffe e delle intemperie.
Un ottimo sistema di prolungare la durata dei pali è poi quello di far loro subire un bagno di solfato di rame al 3 o 5 per cent. Immergendoli in questo bagno, posto entro una vasca di pietra o di cemento, o anche di legno e lasciandoveli per una settimana ( o se sono troppo lunghi, si da doverli immergere prima da una parte, poi dall’altra, lasciandoveli per una quindicina di giorni), essi s’imbevono completamente di solfato di rame, che, essendo un potente antisettico, li preserva ottimamente da alterazioni.
Un trattamento analogo, con solfato di rame al 3 per cento, è pure utile per aumentar la durata delle canne.
Voi sapete che la canna è uno dei sostegni più usati per le viti, perché ha realmente non pochi vantaggi. Ed è per ciò che sovente s’è raccomandato ai viticoltori il loro pezzo di canneto, come dote della vigna. Il consiglio è certamente buono per liberarli dalla necessità di comprar sul mercato le canne, pagandole talvolta molto care; ma oggi non mi sentirei più di darlo con la stessa sicurezza di un tempo, perché le canne non son più, come lo erano allora, nelle mie grazie. Esse difatti, a lato dei vantaggi, hanno parecchi inconvenienti. Anzitutto, avendo necessariamente una robustezza limitata, devono essere usate in numero grandissimo, ciò che, oltre ad elevar la spesa del materiale, rende anche elevatissima la spesa annuale di mano d’opera pel riattamento delle impalcature dei filari. Per di più esse sono il rifugio ideale degli insetti dannosi alla vite, e specialmente delle crisalidi delle tignuole dell’uva. Ora, voi capite che è poco ragionevole procurare ai nostri nemici dei comodi quartieri dove passare l’inverno. Quindi io vorrei che l’uso delle canne nei vigneti andasse sempre più riducendosi.
Del resto, anche i pali di legno di cui si parlava prima, screpolandosi col tempo, offrono agli insetti numerosi e graditi rifugi. Ed è per ciò che, soprattutto all’estero, essi van bandendosi dai vigneti, e si van sostituendo con sostegni di altra natura.
Fra questi, il ferro occupa un posto importante. Veramente, anche da noi il ferro è oggi molto usato sotto forma di fili di varie grossezze. E’ inutile che io venga qui a dimostrarvi tutta la grande utilità del filo di ferro per sostenere le viti. Ormai non v’è regione viticola progredita che non l’abbia adottato su vasta scala. Esso difatti dà alle spalliere dei vigneti una resistenza notevolissima, unità ad una leggerezza e semplicità ammirevoli.
E’ appena il caso di ricordare come si debba usare filo di ferro zincato o galvanizzato, per preservarlo dalla ruggine. Siccome però il solfato di rame, che si usa per la lotta contro la peronospora, finisce con l’asportare il rivestimento di zinco, così alcuni adottano inutilmente l’incatramatura di questi fili. Voi sapete che essi si misurano con calibri di vari numeri: nei vigneti più bassi il più usato è il 14. E’ bene avvertire come, per dare alle spalliere una buona solidità, occorre che i fili siano ben tesi. Ciò s’ottiene facilmente con l’uso di appositi tendifili, di cui alcuni modelli assai buoni servono molto bene allo scopo.
Oggi però il ferro va usandosi anche per farne pali da vigneto. La forma e le dimensioni di questi pali variano molto: sono a T o a L, o rotondi, pieni o vuoti; sovente terminano in basso con una piastra che serve a meglio fissarli al terreno; un’altra volta invece s’impiantano in uno zoccolo di pietra o di cemento. Talvolta, per dar maggior resistenza ai pali di testa dei filari, si muniscono di saette, pure in ferro, inclinate verso l’interno del filare. Certamente questi pali di ferro sono eccellenti, perché robustissimi, snelli eleganti, e, se mantenuti ben verniciati, di lunghissima durata. L’unico inconveniente, un po’ grave è vero, che essi presentano, è quello di costare alquanto cari. Ed è per ciò che in Italia si sono ancora poco diffusi, mentre lo sono assai più in Germania, dove il ferro costa meno che da noi. Sapendo però procurarsi del materiale di ferro usato si può realizzare un’economia assai notevole. Molto indicati, a questo riguardo, sono i tubi di ferro di vecchie caldaie a vapore, che si possono avere a buone condizioni dagli arsenali, da società tranviarie, ecc. Ed è perciò bene che i viticoltori lo sappiano.
Un materiale che poi oggi va guadagnando sempre maggiori simpatie per i molti vantaggi che presenta, è il cemento armato. Il grande vantaggio dei pali di cemento armato è quello che possono essere costruiti sul posto dagli stessi viticoltori, con un risparmio di spesa non indifferente.
Che cosa occorre per costruirsi i pali in cemento armato per i vigneti? Anzitutto uno stampo di legno, che può essere di pioppo o d’abete, tenuto chiuso da bulloni a vite, e ben unto internamente di sego. Naturalmente, bisogna che lo stampo abbia la forma che noi vogliamo dare al palo. Una delle migliori è quella di due tronchi di piramide addossati per la base maggiore. Una delle due piramidi sarà più breve e più tozza: è quella che deve stare sottoterra; l’altra, più lunga e sottile, starà fuori terra. Il materiale occorrente per la costruzione del palo è costituito da una malta di buon cemento di Casale a lenta presa, mescolato a due volte o due volte e mezzo di sabbia di fiume ben lavata, bene impastati fra loro con poca acqua ( circa 15 parti su cento di miscela sabbia/cemento); e da tre tondini di ferro di 4 o 5 millimetri di diametro. S’incomincia a stendere la malta nello stampo, comprimendola ben bene con un apposito mazzuolo di ferro; poi si distendono sulla malta due tondini;poi si versa altra malta, si comprime, si pone il terzo tondino, e si finisce di riempir lo stampo di malta, sempre comprimendolo, non eccessivamente.
Dopo almeno 48 ore, i pali possono essere estratti dalle forme. Si lasciano prima indurire su alcune tavole orizzontali, bagnandoli leggermente due volte al giorno. Poi si drizzano contro un muro, e si lasciano così per un mese. Dopo di che si possono piantare. Non sarà inutile osservare che, siccome non si possono in essi piantar chiodi, così è bene costruendoli, lasciar dei fori in corrispondenza dei punti dove si devono far passare i fili di ferro. Per lasciare questi fori, basta forare in corrispondenza lo stampo, e, mentre si riempie di malta, far passare per il foro un filo di ferro, facendolo girare su se stesso ripetutamente, poi estraendolo.
Le dimensioni di questi pali variano naturalmente a seconda dello sforzo che debbono esercitare. Per vigneti bassi, l’altezza complessiva varia da m.1,60 a 2,50; lo spessore da 8 a 12 cm. alla base maggiore.
Ho detto che questi pali han molte buone qualità. Costruiti dallo stesso viticoltore durante l’inverno quando i lavori sono pochi, vengono a costare assai meno dei pali in ferro ( non superando in generale una lira ciascuno); sono non meno resistenti ne duraturi di questi, quando appena si eviti di urtarli violentemente con gli strumenti di lavoro (aratri, picconi, zappe). Anch’essi, come quelli in ferro, offrono il vantaggio su quelli di legno di non dar asilo agli insetti; e, per la maggior solidità che essi forniscono alle spalliere dei filari, di ridurre di molto le spese annuali di riattamento delle spalliere stesse. Ecco dunque, come anche in fatto di sostegni, i viticoltori abbiano qualcosa da imparare e non poco da progredire. Dopo di che, per questa sera faccio punto e vi mando a letto tutti quanti!
V’è però un argomento cui non voglio rinunciare, perché è già stato anche troppo trascurato finora, mentre ha tanta importanza per la viticoltura: l’argomento dei sostegni della vite.
Può sembrare strano che i sostegni abbiano una grande importanza. Ed effettivamente sarebbe strano se io con ciò volessi dire che i sostegni servono ad aumentare notevolmente la produzione della vite. Io invece voglio dire quasi il contrario: che cioè, visto che i sostegni non possono troppo direttamente influire sulla produzione della vite, così è per noi molto importante trovar il modo di ridurli al minimo strettamente necessario, economizzando su di ogni più piccola spesa al riguardo.
Una volta quest’argomento aveva poca importanza: le vigne non erano molto estese, e molto estesi erano invece i boschi; il legname quindi abbondava e costava poco. Oggi al contrario sono i boschi che scarseggiano e le vigne che abbondano. Se si aggiunge che il legname trova oggi sempre nuove e più importanti destinazioni in industrie speciali; se si aggiunge che al costo della mano d’opera necessaria per mettere in opera e mantenere all’ordine i sostegni stessi, si comprende come oggi sia importante, ripeto, trovar il modo di far economia in questo capitolo del bilancio viticolo.
Per far economia, bisogna scegliere anzitutto i sostegni più economici. Non bisogna credere che i sostegni più economici sian quelli che costano meno. Anche dei sostegni che si pagano assai cari posson riuscir molto economici, quando il loro costo elevato sia compensato da una lunga durata. Perciò, in generale bisogna cercare di aumentare la durata dei sostegni. Vediamo in quali modi.
Qui dovrei fare prima un po’ di distinzione fra i vari sostegni; e dovrei incominciar a distinguere quelli vivi da quelli morti. Permettetemi di non parlarvi dei vivi, cioè degli alberi cui si marita la vite ( il migliore dei quali resta sempre l’acero), per limitarmi come il breve tempo mi costringe, a quelli morti. Questi possono essere di legno o d’altro materiale. Quelli di legno possono essere pali di varie essenze: robinia, salice, castagno, quercia, olmo, pino.
Una parola sola su uno di essi: la robinia, o falsa acacia. Ed è una parola di lode per questa pianta, altrettanto utile quanto modesta. Io vorrei che voi la coltivaste più di quanto non facciate. Io vedo sovente dei lembi di terreno inutilizzati: sono ciglioni e scarpate di strade, argini di canali, sponde di fiumi o torrenti abbandonate, perché soggette a poco gradite visite delle acque. Ecco tanti terreni da destinare alla robinia. Essa s’accontenta di così poco. Certamente, sui ghiaieti d’un fiume non darà risultati così brillanti come in un buon terreno coltivato; ma appunto perché quello altrimenti non produrrebbe nulla, la robinia diventa preziosa.
Dicevamo, dunque, che occorre cercar di aumentare la durata di questi pali, la quale come sapete, è sempre più o meno breve. Non intendo di parlarvi di tutti i processi ideati a questo scopo; mi accontento di ricordarvene qualcuno.Buon sistema è quello di spalmar la parte del palo che deve andare sottoterra, con del catrame di carbon fossile o meglio anche con del carbolineum. Queste sostanze impediscono all’acqua del terreno di penetrare all’interno dei pali e di farli marcire. Buona cosa, trattandosi di grossi pali di testata, ogni due o tre anni scalzarli presso la superficie del suolo, ripulirne e asciugarne il tratto vicino a terra, e poi pennellarlo con catrame caldo o pece, perché è appunto questo primo tratto che sta sottoterra, che va più soggetto ai danni delle muffe e delle intemperie.
Un ottimo sistema di prolungare la durata dei pali è poi quello di far loro subire un bagno di solfato di rame al 3 o 5 per cent. Immergendoli in questo bagno, posto entro una vasca di pietra o di cemento, o anche di legno e lasciandoveli per una settimana ( o se sono troppo lunghi, si da doverli immergere prima da una parte, poi dall’altra, lasciandoveli per una quindicina di giorni), essi s’imbevono completamente di solfato di rame, che, essendo un potente antisettico, li preserva ottimamente da alterazioni.
Un trattamento analogo, con solfato di rame al 3 per cento, è pure utile per aumentar la durata delle canne.
Voi sapete che la canna è uno dei sostegni più usati per le viti, perché ha realmente non pochi vantaggi. Ed è per ciò che sovente s’è raccomandato ai viticoltori il loro pezzo di canneto, come dote della vigna. Il consiglio è certamente buono per liberarli dalla necessità di comprar sul mercato le canne, pagandole talvolta molto care; ma oggi non mi sentirei più di darlo con la stessa sicurezza di un tempo, perché le canne non son più, come lo erano allora, nelle mie grazie. Esse difatti, a lato dei vantaggi, hanno parecchi inconvenienti. Anzitutto, avendo necessariamente una robustezza limitata, devono essere usate in numero grandissimo, ciò che, oltre ad elevar la spesa del materiale, rende anche elevatissima la spesa annuale di mano d’opera pel riattamento delle impalcature dei filari. Per di più esse sono il rifugio ideale degli insetti dannosi alla vite, e specialmente delle crisalidi delle tignuole dell’uva. Ora, voi capite che è poco ragionevole procurare ai nostri nemici dei comodi quartieri dove passare l’inverno. Quindi io vorrei che l’uso delle canne nei vigneti andasse sempre più riducendosi.
Del resto, anche i pali di legno di cui si parlava prima, screpolandosi col tempo, offrono agli insetti numerosi e graditi rifugi. Ed è per ciò che, soprattutto all’estero, essi van bandendosi dai vigneti, e si van sostituendo con sostegni di altra natura.
Fra questi, il ferro occupa un posto importante. Veramente, anche da noi il ferro è oggi molto usato sotto forma di fili di varie grossezze. E’ inutile che io venga qui a dimostrarvi tutta la grande utilità del filo di ferro per sostenere le viti. Ormai non v’è regione viticola progredita che non l’abbia adottato su vasta scala. Esso difatti dà alle spalliere dei vigneti una resistenza notevolissima, unità ad una leggerezza e semplicità ammirevoli.
E’ appena il caso di ricordare come si debba usare filo di ferro zincato o galvanizzato, per preservarlo dalla ruggine. Siccome però il solfato di rame, che si usa per la lotta contro la peronospora, finisce con l’asportare il rivestimento di zinco, così alcuni adottano inutilmente l’incatramatura di questi fili. Voi sapete che essi si misurano con calibri di vari numeri: nei vigneti più bassi il più usato è il 14. E’ bene avvertire come, per dare alle spalliere una buona solidità, occorre che i fili siano ben tesi. Ciò s’ottiene facilmente con l’uso di appositi tendifili, di cui alcuni modelli assai buoni servono molto bene allo scopo.
Oggi però il ferro va usandosi anche per farne pali da vigneto. La forma e le dimensioni di questi pali variano molto: sono a T o a L, o rotondi, pieni o vuoti; sovente terminano in basso con una piastra che serve a meglio fissarli al terreno; un’altra volta invece s’impiantano in uno zoccolo di pietra o di cemento. Talvolta, per dar maggior resistenza ai pali di testa dei filari, si muniscono di saette, pure in ferro, inclinate verso l’interno del filare. Certamente questi pali di ferro sono eccellenti, perché robustissimi, snelli eleganti, e, se mantenuti ben verniciati, di lunghissima durata. L’unico inconveniente, un po’ grave è vero, che essi presentano, è quello di costare alquanto cari. Ed è per ciò che in Italia si sono ancora poco diffusi, mentre lo sono assai più in Germania, dove il ferro costa meno che da noi. Sapendo però procurarsi del materiale di ferro usato si può realizzare un’economia assai notevole. Molto indicati, a questo riguardo, sono i tubi di ferro di vecchie caldaie a vapore, che si possono avere a buone condizioni dagli arsenali, da società tranviarie, ecc. Ed è perciò bene che i viticoltori lo sappiano.
Un materiale che poi oggi va guadagnando sempre maggiori simpatie per i molti vantaggi che presenta, è il cemento armato. Il grande vantaggio dei pali di cemento armato è quello che possono essere costruiti sul posto dagli stessi viticoltori, con un risparmio di spesa non indifferente.
Che cosa occorre per costruirsi i pali in cemento armato per i vigneti? Anzitutto uno stampo di legno, che può essere di pioppo o d’abete, tenuto chiuso da bulloni a vite, e ben unto internamente di sego. Naturalmente, bisogna che lo stampo abbia la forma che noi vogliamo dare al palo. Una delle migliori è quella di due tronchi di piramide addossati per la base maggiore. Una delle due piramidi sarà più breve e più tozza: è quella che deve stare sottoterra; l’altra, più lunga e sottile, starà fuori terra. Il materiale occorrente per la costruzione del palo è costituito da una malta di buon cemento di Casale a lenta presa, mescolato a due volte o due volte e mezzo di sabbia di fiume ben lavata, bene impastati fra loro con poca acqua ( circa 15 parti su cento di miscela sabbia/cemento); e da tre tondini di ferro di 4 o 5 millimetri di diametro. S’incomincia a stendere la malta nello stampo, comprimendola ben bene con un apposito mazzuolo di ferro; poi si distendono sulla malta due tondini;poi si versa altra malta, si comprime, si pone il terzo tondino, e si finisce di riempir lo stampo di malta, sempre comprimendolo, non eccessivamente.
Dopo almeno 48 ore, i pali possono essere estratti dalle forme. Si lasciano prima indurire su alcune tavole orizzontali, bagnandoli leggermente due volte al giorno. Poi si drizzano contro un muro, e si lasciano così per un mese. Dopo di che si possono piantare. Non sarà inutile osservare che, siccome non si possono in essi piantar chiodi, così è bene costruendoli, lasciar dei fori in corrispondenza dei punti dove si devono far passare i fili di ferro. Per lasciare questi fori, basta forare in corrispondenza lo stampo, e, mentre si riempie di malta, far passare per il foro un filo di ferro, facendolo girare su se stesso ripetutamente, poi estraendolo.
Le dimensioni di questi pali variano naturalmente a seconda dello sforzo che debbono esercitare. Per vigneti bassi, l’altezza complessiva varia da m.1,60 a 2,50; lo spessore da 8 a 12 cm. alla base maggiore.
Ho detto che questi pali han molte buone qualità. Costruiti dallo stesso viticoltore durante l’inverno quando i lavori sono pochi, vengono a costare assai meno dei pali in ferro ( non superando in generale una lira ciascuno); sono non meno resistenti ne duraturi di questi, quando appena si eviti di urtarli violentemente con gli strumenti di lavoro (aratri, picconi, zappe). Anch’essi, come quelli in ferro, offrono il vantaggio su quelli di legno di non dar asilo agli insetti; e, per la maggior solidità che essi forniscono alle spalliere dei filari, di ridurre di molto le spese annuali di riattamento delle spalliere stesse. Ecco dunque, come anche in fatto di sostegni, i viticoltori abbiano qualcosa da imparare e non poco da progredire. Dopo di che, per questa sera faccio punto e vi mando a letto tutti quanti!
domenica 6 febbraio 2011
quattordicesima puntata
L’ultima sera, incomincio il Cavaliere, abbiamo visto come deve essere lavorato il terreno del vigneto; stassera vediamo com’esso debba venir concimato. Lavori e concimi, infatti, son necessari per mantenerlo in buone condizioni. Una premessa. E’ proprio vero che i concimi sian necessari alla vite? Questa è una domanda che vi potrà accadere di sentir fare; mentre non v’accadrà di sentirvi domandare se è necessario concimare il granturco, o l’orto, ecc. perché?
Perché alcuni agricoltori osservano che certi vigneti, non concimati da molti anni, tirano avanti egualmente; mentre così non succederebbe di un campo di granturco, o d’un’aiuola di patate, ecc. Io però mi affretto a rispondervi che è necessario concimare la vite. Che essa sia una pianta che sappia molto bene sfruttare le risorse anche scarse del terreno; che essa sopporti meglio di altre piante, soprattutto erbacee, la fame, è innegabile; ma che a lungo andare la fame abbia tristi effetti anche sulla vite; che essa vada deperendo e diminuendo il prodotto se non concimata è altrettanto vero.
Gli è che sovente alla vite si fanno abbondantissime concimazioni all’impianto, servendosi di materiali di lento effetto, sicché per un buon numero di anni essa ne risente la benefica influenza. Ma oggi è preferibile non esagerare in queste concimazioni d’impianto, che implicano sovente una spesa enorme; e invece largheggiare piuttosto, e con frequenza, nelle concimazioni periodiche.
Comunque, oggi più che un tempo la vigna deve’esser concimata; sia perché noi da essa vogliamo ottenere il massimo prodotto possibile; sia perché essa oggi deve lottare con nemici ancor più numerosi e potenti che in passato: e perciò deve essere robusta, e ben agguerrita per resistere ai loro assalti.
Vediamo dunque ciò che abbisogna alla vite in fatto di materiali fertilizzanti. Voi sapete che i principali elementi che noi dobbiamo fornire alle nostre piante per mezzo dei concimi sono:
l’azoto, il fosforo ( o meglio, l’anidride fosforica), la potassa e la calce. Quest’ultima molte volte non abbiamo bisogno di aggiungerla: in qualunque caso essa costa assai poco. Non così per gli altri tre elementi, i quali costano assai cari.Ora, la vite ha bisogno di forti quantità di potassa e di azoto, e di quantità sensibilmente inferiori di anidride fosforica. Ciò farebbe credere che dovessimo dare con le concimazioni assai più dei primi due elementi che del terzo. Ora ciò non è. Poiché bisogna tener conto che quasi tutti i nostri terreni sono assai poveri di anidride fosforica, mentre che non son tanto rari quelli discretamente ricchi di potassa. Ecco perché una buona concimazione al vigneto deve sempre comprendere anche delle ricche dosi di anidride fosforica. Ciò premesso, vediamo in quali modi noi possiamo fornire alla vite gli alimenti che le occorrono. Con due generi di concimi: naturali e artificiali ( questi ultimi più sovente li sentite chiamare “chimici”).
Incominciamo dai primi, e dal più importante e conosciuto di essi: il letame. Facciamo tanto di cappello a questo concime, che è stato anche detto il “re dei concimi”. Un re alquanto puzzolente, ma non importa…Però aggiungiamo che, appunto perché il letame può trovare tante utili applicazioni nelle nostre aziende, è meglio non sciupare troppo i vigneti. Il letame, infatti, non è il concime più indicato per le viti. Esso è troppo ricco in azoto e troppo povero di anidride fosforica, per cui favorisce troppo la vegetazione e, quand’anche faccia aumentare in modo notevole la produzione, peggiora però assai la qualità del prodotto. E’ per questo motivo che un tempo si riteneva che la concimazione dei vigneti andasse a scapito della qualità dei prodotti.Oggi questo si può evitare con i concimi chimici; ma resta sempre vero quanto si usino quantità eccessive di letame. Tutt’al più il letame sarà conveniente per le concimazioni di impianto del vigneto. Per queste ne occorreranno delle dosi piuttosto forti, variabili da 500 a 1.000 e più quintali per ettaro, a seconda che il vigneto è più o meno intensivo.
L’inconveniente di queste forti somministrazioni di stallatico può essere la spesa eccessiva a cui si deve andare incontro qualora il letame costi piuttosto caro. In generale si può ritenere che il letame diventa troppo costoso, quando si deve pagarlo oltre una lira al quintale. Quando così sia (come in più di una regione intensamente vitifera), allora bisogna ridurre al minimo possibile la concimazione d’impianto con letame, completandola piuttosto con generose somministrazioni di concimi chimici.
Dove invece il letame abbonda ed ha n valore molto basso, allora si può ricorrere anche ad esso per le concimazioni periodiche al vigneto adulto, sempre, però, ricordando di non eccedere, e di correggerlo con l’aggiunta di concimi fosfatici. Ricordatevi poi che al letame vi converrà sempre aggiungere una buona dose di gesso ( 6/8 quintali per ettaro), poiché è stato dimostrato che questo aumenta di molto l’azione benefica del letame.
Nella maggior parte dei casi per, la concimazione della vite conviene farla con prodotti chimici. Essi, a differenza del letame, quando sian scelti e proporzionati con giusto criterio, non solo aumentano la quantità del prodotto, ma anche ne migliorano la qualità.
Ma naturalmente, bisogna saperli ben adoperare. Bisogna anzitutto che voi cerchiate di ben conoscere la natura del terreno che dovete concimare, per sapere di quali elementi maggiormente difetta. Questo è un punto difficile; e sarà bene che voi facciate analizzare il vostro terreno.
Supposto che voi ben lo conosciate, dovete scegliere i concimi. Alcuni di essi sono azotati: tale è il nitrato di sodio, tale il solfato ammonico, tale la calcio-cianamide. Son tutti quanti concimi di pronto effetto: il nitrato più di tutti, il solfato meno. Perciò, onde evitare che le acque li asportino dal terreno, è bene non usarli troppo presto. Il nitrato di soda si da a primavera, Il solfato ammonico si può dare in autunno: meglio però metà in autunno, metà in primavera. La calciocianamide si dà a fine inverno o principio di primavera. Di questi vari concimi se ne usano da 1 a 2 quintali, 2,5 al più, per ettaro di vigneto.
Altri concimi chimici indispensabili alla vite son quelli fosfatici. I più comunemente usati sono le Scorie Thomas ed i perfosfati minerali. Le prime sono di azione più lenta dei secondi; ma per la vite si prestano benissimo, essendo la vite una pianta legnosa, che quindi si può utilizzare anche concimi poco rapidi. Sono specialmente adatti a quei terreni poveri di calcare, ricchi di sostanza organica. Esse debbono usarsi assolutamente in autunno, se si vuole che la pianta non tardi molto a sentirne il beneficio. Anche i perfosfati si possono distribuire in autunno, ma si possono benissimo usare anche a primavera. Di scorie ne occorreranno da 4 a 8 quintali per ettaro; di perfosfati da 3 a 6.
I concimi potassici più comuni sono il solfato e il cloruro di potassio. Veramente si potrebbe anche considerare la cenere di legna non lisciviata, che rappresenta un buon materiale ( si calcola che 5 quintali di essa in media equivalgono ad uno di solfato di potassico); la Kainite, che è un sale che si ottiene direttamente dalle miniere, e che perciò è molto impuro .Ma il più conveniente di tutti è il solfato potassico. E’ un concime facilmente utilizzabile dalle piante. Si può dare in autunno o anche all’inizio della primavera; in dosi variabili da 1,5 a 3 quintali per ettaro. Terreni che ne avran meno bisogno sono quelli argillosi, perché essi sono già naturalmente abbastanza provvisti di potassa.
Quanto hai concimi calcari, non è molto frequente che di essi occorra fare una vera e propria somministrazione, poiché di solito i terreni dei vigneti sono a sufficienza provvisti di calcare. Ad ogni modo, se occorre, si potrà somministrarne in abbondanza e con poca spesa mediante la solita calce da muratori, o mediante del gesso.
Ed ora qualche parola sulla somministrazione d questi concimi chimici. Anzitutto essi dovranno venir fra loro mescolati al momento dell’uso. Meglio fare queste mescolanze da sé, regolandosi, com’ho detto, nel determinar la quantità da usarne a seconda della natura del terreno. Ed è perciò, e per altre ragioni ancora, che vi sconsiglio di ricorrere a quei cosiddetti “ concimi completi per la vite” che si trovano in commercio. Nella migliore delle supposizioni, essi vi verranno a costare il doppio di quel che valgono in base hai materiali fertilizzanti che contengono. Quanto alla distribuzione, se si tratta di vigneti molto fitti si può fare uniformemente a spaglio o alla volata (meglio se prima i concimi saranno stati addizionati di qualche quintale di terra fine o sabbia per aumentarne il volume). Se i filari son più distanti fra loro, si scava un fossatello al disopra e al disotto dei ceppi, o si fanno quattro buchi con la zappa, e nei fossatelli o nei buchi si distribuisce la mescolanza dei concimi. Quando all’epoca di spargerli, l’abbiam indicata prima.
In fatto di concimazione del vigneto c’è però un altro sistema, su cui vorrei insistere se il tempo non fosse breve: voglio alludere al sovescio di leguminose. Esso ci permette di portare gratuitamente nel terreno quell’elemento che è più costoso di tutti: cioè l’azoto. Voi, infatti, sapete come le leguminose siano piante che migliorano il terreno, e come, dopo averle coltivate, si ottengano delle piante che seguono delle produzioni più abbondanti.Si tratta, dunque, di seminare negli interfilari del vigneto qualche buona leguminosa, farla crescere più prosperosa che possibile, fin che sia giunta in fioritura, e allora, invece di raccoglierla, sotterrarla tale e quale con un buon lavoro. Figuratevi che con un buon sovescio si riesce a portar nel terreno da 100 a 200 kg. Di azoto per ettaro; e quando pensiate che esso, nei concimi lo si paghi fin quasi due lire al Kg. Capirete quale sorta di convenienza vi sia nell’adottare questa pratica. Essa sarà tanto più opportuna in tutti i casi in cui il terreno del vigneto sia poverissimo di sostanza organica, per cui converrebbe aggiungerne un poco; e non si disponga di letame a prezzi convenienti, oppure il trasporto di questo concime riesca molto costoso e disagevole, come in certe regioni collinari, mal fornite di strade.
Ma per ottener buoni risultati dal sovescio è necessario eseguirlo con criterio. E’ necessario anzitutto scegliere una buona leguminosa, che s’adatti bene al nostro vigneto. Delle buone leguminose che si prestino a questo scopo non ce ne sono poche. Una di questa è la favetta, che s’adatta specialmente ai terreni argillosi: essa soffre però i forti freddi invernali, per cui nell’Italia settentrionale sovente è necessario attendere a seminarla a fine febbraio. In terreni mezzani si può adoperare con buoni risultati il trifoglio incarnato, seminandolo a fine settembre, e sovesciandolo in principio di primavera. Molto rustica, e quindi adatta anche a terreni poveri e aridi, è la veccia invernenga, che pure si semina in autunno e si sovescia a primavera avanzata.
Nelle terre povere di calcare viene bene il lupino bianco. Sovente poi v’è convenienza a seminare un miscuglio di due o tre di queste piante, cosicché è più probabile che almeno una di esse riesca bene. La scelta d’una buona leguminosa però non basta: occorre anche pensare ad un’opportuna concimazione.
Giacché non bisogna dimenticare che le leguminose non possono provvedere da sé altro che l’azoto; ma non la potassa né l’anidride fosforica né la calce. Si dovrà quindi somministrare al terreno prima della semina di queste piante, da 3 a 4 quintali di perfosfato per ettaro, da 1,5 a 2,5 quintali di solfato potassico, da 4 a 6 quintali di gesso. Solo così le nostre leguminose vegeteranno rigogliose, ed a primavera, giunte in fioritura, potranno darci un ottimo sovescio. E’ pure bene ricordare che la semina di queste leguminose è meglio farla a filari alternati, eseguendo il sovescio su tutto il vigneto in due anni. Così si potranno eseguire più facilmente le varie operazioni colturali alla vite senza essere costretti a calpestar le piante da sovescio.
Il lavoro di sovescio può esser fatto a mano, con la vanga; o con l’aratro. Comunque, dev’esser un lavoro più profondo di quelli ordinari, dovendo sotterrare tutte queste piante, perché possano bene decomporsi.
Anche per questo motivo, il sovescio è una pratica da farsi ad intervalli, e deve essere alternata con la concimazione chimica. Ma, ripeto, è un’ottima pratica, che dovrebbe diffondersi assai più nelle nostre regioni viticole, anche perché aumenta la quantità di prodotto senza peggiorarne la qualità, come fanno gli altri concimi organici.
Ma l’ora è tarda, ed io finisco. Ad un’altra sera, dunque, amici miei.
Perché alcuni agricoltori osservano che certi vigneti, non concimati da molti anni, tirano avanti egualmente; mentre così non succederebbe di un campo di granturco, o d’un’aiuola di patate, ecc. Io però mi affretto a rispondervi che è necessario concimare la vite. Che essa sia una pianta che sappia molto bene sfruttare le risorse anche scarse del terreno; che essa sopporti meglio di altre piante, soprattutto erbacee, la fame, è innegabile; ma che a lungo andare la fame abbia tristi effetti anche sulla vite; che essa vada deperendo e diminuendo il prodotto se non concimata è altrettanto vero.
Gli è che sovente alla vite si fanno abbondantissime concimazioni all’impianto, servendosi di materiali di lento effetto, sicché per un buon numero di anni essa ne risente la benefica influenza. Ma oggi è preferibile non esagerare in queste concimazioni d’impianto, che implicano sovente una spesa enorme; e invece largheggiare piuttosto, e con frequenza, nelle concimazioni periodiche.
Comunque, oggi più che un tempo la vigna deve’esser concimata; sia perché noi da essa vogliamo ottenere il massimo prodotto possibile; sia perché essa oggi deve lottare con nemici ancor più numerosi e potenti che in passato: e perciò deve essere robusta, e ben agguerrita per resistere ai loro assalti.
Vediamo dunque ciò che abbisogna alla vite in fatto di materiali fertilizzanti. Voi sapete che i principali elementi che noi dobbiamo fornire alle nostre piante per mezzo dei concimi sono:
l’azoto, il fosforo ( o meglio, l’anidride fosforica), la potassa e la calce. Quest’ultima molte volte non abbiamo bisogno di aggiungerla: in qualunque caso essa costa assai poco. Non così per gli altri tre elementi, i quali costano assai cari.Ora, la vite ha bisogno di forti quantità di potassa e di azoto, e di quantità sensibilmente inferiori di anidride fosforica. Ciò farebbe credere che dovessimo dare con le concimazioni assai più dei primi due elementi che del terzo. Ora ciò non è. Poiché bisogna tener conto che quasi tutti i nostri terreni sono assai poveri di anidride fosforica, mentre che non son tanto rari quelli discretamente ricchi di potassa. Ecco perché una buona concimazione al vigneto deve sempre comprendere anche delle ricche dosi di anidride fosforica. Ciò premesso, vediamo in quali modi noi possiamo fornire alla vite gli alimenti che le occorrono. Con due generi di concimi: naturali e artificiali ( questi ultimi più sovente li sentite chiamare “chimici”).
Incominciamo dai primi, e dal più importante e conosciuto di essi: il letame. Facciamo tanto di cappello a questo concime, che è stato anche detto il “re dei concimi”. Un re alquanto puzzolente, ma non importa…Però aggiungiamo che, appunto perché il letame può trovare tante utili applicazioni nelle nostre aziende, è meglio non sciupare troppo i vigneti. Il letame, infatti, non è il concime più indicato per le viti. Esso è troppo ricco in azoto e troppo povero di anidride fosforica, per cui favorisce troppo la vegetazione e, quand’anche faccia aumentare in modo notevole la produzione, peggiora però assai la qualità del prodotto. E’ per questo motivo che un tempo si riteneva che la concimazione dei vigneti andasse a scapito della qualità dei prodotti.Oggi questo si può evitare con i concimi chimici; ma resta sempre vero quanto si usino quantità eccessive di letame. Tutt’al più il letame sarà conveniente per le concimazioni di impianto del vigneto. Per queste ne occorreranno delle dosi piuttosto forti, variabili da 500 a 1.000 e più quintali per ettaro, a seconda che il vigneto è più o meno intensivo.
L’inconveniente di queste forti somministrazioni di stallatico può essere la spesa eccessiva a cui si deve andare incontro qualora il letame costi piuttosto caro. In generale si può ritenere che il letame diventa troppo costoso, quando si deve pagarlo oltre una lira al quintale. Quando così sia (come in più di una regione intensamente vitifera), allora bisogna ridurre al minimo possibile la concimazione d’impianto con letame, completandola piuttosto con generose somministrazioni di concimi chimici.
Dove invece il letame abbonda ed ha n valore molto basso, allora si può ricorrere anche ad esso per le concimazioni periodiche al vigneto adulto, sempre, però, ricordando di non eccedere, e di correggerlo con l’aggiunta di concimi fosfatici. Ricordatevi poi che al letame vi converrà sempre aggiungere una buona dose di gesso ( 6/8 quintali per ettaro), poiché è stato dimostrato che questo aumenta di molto l’azione benefica del letame.
Nella maggior parte dei casi per, la concimazione della vite conviene farla con prodotti chimici. Essi, a differenza del letame, quando sian scelti e proporzionati con giusto criterio, non solo aumentano la quantità del prodotto, ma anche ne migliorano la qualità.
Ma naturalmente, bisogna saperli ben adoperare. Bisogna anzitutto che voi cerchiate di ben conoscere la natura del terreno che dovete concimare, per sapere di quali elementi maggiormente difetta. Questo è un punto difficile; e sarà bene che voi facciate analizzare il vostro terreno.
Supposto che voi ben lo conosciate, dovete scegliere i concimi. Alcuni di essi sono azotati: tale è il nitrato di sodio, tale il solfato ammonico, tale la calcio-cianamide. Son tutti quanti concimi di pronto effetto: il nitrato più di tutti, il solfato meno. Perciò, onde evitare che le acque li asportino dal terreno, è bene non usarli troppo presto. Il nitrato di soda si da a primavera, Il solfato ammonico si può dare in autunno: meglio però metà in autunno, metà in primavera. La calciocianamide si dà a fine inverno o principio di primavera. Di questi vari concimi se ne usano da 1 a 2 quintali, 2,5 al più, per ettaro di vigneto.
Altri concimi chimici indispensabili alla vite son quelli fosfatici. I più comunemente usati sono le Scorie Thomas ed i perfosfati minerali. Le prime sono di azione più lenta dei secondi; ma per la vite si prestano benissimo, essendo la vite una pianta legnosa, che quindi si può utilizzare anche concimi poco rapidi. Sono specialmente adatti a quei terreni poveri di calcare, ricchi di sostanza organica. Esse debbono usarsi assolutamente in autunno, se si vuole che la pianta non tardi molto a sentirne il beneficio. Anche i perfosfati si possono distribuire in autunno, ma si possono benissimo usare anche a primavera. Di scorie ne occorreranno da 4 a 8 quintali per ettaro; di perfosfati da 3 a 6.
I concimi potassici più comuni sono il solfato e il cloruro di potassio. Veramente si potrebbe anche considerare la cenere di legna non lisciviata, che rappresenta un buon materiale ( si calcola che 5 quintali di essa in media equivalgono ad uno di solfato di potassico); la Kainite, che è un sale che si ottiene direttamente dalle miniere, e che perciò è molto impuro .Ma il più conveniente di tutti è il solfato potassico. E’ un concime facilmente utilizzabile dalle piante. Si può dare in autunno o anche all’inizio della primavera; in dosi variabili da 1,5 a 3 quintali per ettaro. Terreni che ne avran meno bisogno sono quelli argillosi, perché essi sono già naturalmente abbastanza provvisti di potassa.
Quanto hai concimi calcari, non è molto frequente che di essi occorra fare una vera e propria somministrazione, poiché di solito i terreni dei vigneti sono a sufficienza provvisti di calcare. Ad ogni modo, se occorre, si potrà somministrarne in abbondanza e con poca spesa mediante la solita calce da muratori, o mediante del gesso.
Ed ora qualche parola sulla somministrazione d questi concimi chimici. Anzitutto essi dovranno venir fra loro mescolati al momento dell’uso. Meglio fare queste mescolanze da sé, regolandosi, com’ho detto, nel determinar la quantità da usarne a seconda della natura del terreno. Ed è perciò, e per altre ragioni ancora, che vi sconsiglio di ricorrere a quei cosiddetti “ concimi completi per la vite” che si trovano in commercio. Nella migliore delle supposizioni, essi vi verranno a costare il doppio di quel che valgono in base hai materiali fertilizzanti che contengono. Quanto alla distribuzione, se si tratta di vigneti molto fitti si può fare uniformemente a spaglio o alla volata (meglio se prima i concimi saranno stati addizionati di qualche quintale di terra fine o sabbia per aumentarne il volume). Se i filari son più distanti fra loro, si scava un fossatello al disopra e al disotto dei ceppi, o si fanno quattro buchi con la zappa, e nei fossatelli o nei buchi si distribuisce la mescolanza dei concimi. Quando all’epoca di spargerli, l’abbiam indicata prima.
In fatto di concimazione del vigneto c’è però un altro sistema, su cui vorrei insistere se il tempo non fosse breve: voglio alludere al sovescio di leguminose. Esso ci permette di portare gratuitamente nel terreno quell’elemento che è più costoso di tutti: cioè l’azoto. Voi, infatti, sapete come le leguminose siano piante che migliorano il terreno, e come, dopo averle coltivate, si ottengano delle piante che seguono delle produzioni più abbondanti.Si tratta, dunque, di seminare negli interfilari del vigneto qualche buona leguminosa, farla crescere più prosperosa che possibile, fin che sia giunta in fioritura, e allora, invece di raccoglierla, sotterrarla tale e quale con un buon lavoro. Figuratevi che con un buon sovescio si riesce a portar nel terreno da 100 a 200 kg. Di azoto per ettaro; e quando pensiate che esso, nei concimi lo si paghi fin quasi due lire al Kg. Capirete quale sorta di convenienza vi sia nell’adottare questa pratica. Essa sarà tanto più opportuna in tutti i casi in cui il terreno del vigneto sia poverissimo di sostanza organica, per cui converrebbe aggiungerne un poco; e non si disponga di letame a prezzi convenienti, oppure il trasporto di questo concime riesca molto costoso e disagevole, come in certe regioni collinari, mal fornite di strade.
Ma per ottener buoni risultati dal sovescio è necessario eseguirlo con criterio. E’ necessario anzitutto scegliere una buona leguminosa, che s’adatti bene al nostro vigneto. Delle buone leguminose che si prestino a questo scopo non ce ne sono poche. Una di questa è la favetta, che s’adatta specialmente ai terreni argillosi: essa soffre però i forti freddi invernali, per cui nell’Italia settentrionale sovente è necessario attendere a seminarla a fine febbraio. In terreni mezzani si può adoperare con buoni risultati il trifoglio incarnato, seminandolo a fine settembre, e sovesciandolo in principio di primavera. Molto rustica, e quindi adatta anche a terreni poveri e aridi, è la veccia invernenga, che pure si semina in autunno e si sovescia a primavera avanzata.
Nelle terre povere di calcare viene bene il lupino bianco. Sovente poi v’è convenienza a seminare un miscuglio di due o tre di queste piante, cosicché è più probabile che almeno una di esse riesca bene. La scelta d’una buona leguminosa però non basta: occorre anche pensare ad un’opportuna concimazione.
Giacché non bisogna dimenticare che le leguminose non possono provvedere da sé altro che l’azoto; ma non la potassa né l’anidride fosforica né la calce. Si dovrà quindi somministrare al terreno prima della semina di queste piante, da 3 a 4 quintali di perfosfato per ettaro, da 1,5 a 2,5 quintali di solfato potassico, da 4 a 6 quintali di gesso. Solo così le nostre leguminose vegeteranno rigogliose, ed a primavera, giunte in fioritura, potranno darci un ottimo sovescio. E’ pure bene ricordare che la semina di queste leguminose è meglio farla a filari alternati, eseguendo il sovescio su tutto il vigneto in due anni. Così si potranno eseguire più facilmente le varie operazioni colturali alla vite senza essere costretti a calpestar le piante da sovescio.
Il lavoro di sovescio può esser fatto a mano, con la vanga; o con l’aratro. Comunque, dev’esser un lavoro più profondo di quelli ordinari, dovendo sotterrare tutte queste piante, perché possano bene decomporsi.
Anche per questo motivo, il sovescio è una pratica da farsi ad intervalli, e deve essere alternata con la concimazione chimica. Ma, ripeto, è un’ottima pratica, che dovrebbe diffondersi assai più nelle nostre regioni viticole, anche perché aumenta la quantità di prodotto senza peggiorarne la qualità, come fanno gli altri concimi organici.
Ma l’ora è tarda, ed io finisco. Ad un’altra sera, dunque, amici miei.
sabato 29 gennaio 2011
tredicesima puntata
Finora abbiamo parlato, o miei amici, incominciò l’instancabile Cavalier Prosdocimo, di operazioni che si fanno attorno alla pianta. Dobbiamo ora preoccuparci anche di quelle che bisogna fare al terreno, su cui le nostre viti si trovano. Il terreno del vigneto deve essere mantenuto in buone condizioni con due categorie di operazioni: con i lavori e con le concimazioni. Stassera parleremo dei primi. I lavori al terreno del vigneto possono essere fondamentali: sono quelli che si fanno all’impianto, e ne abbiamo parlato: Oppure possono essere ordinari: sono quelli che si fanno annualmente. E di questi ci occupiamo ora.Credo inutile dimostrarvi che il terreno del vigneto deve essere lavorato: questo sapevano anche i nostri nonni, e questo sapete anche voi: Tuttavia non sarà fuor di luogo ricordare ( poiché qualcuno, sentendone parlare in qualche occasione, potrebbe entusiasmarsi a sproposito) che in questi ultimi tempi s’è andata qua e là facendosi strada una curiosa teoria, per cui il vigneto non dovrebbe essere lavorato. E’ ciò che s’è chiamato l’incultura della vite. Alcuni dunque han detto e sostenuto che i vigneti non lavorati stanno meglio di quelli lavorati. Gran bella cosa…..se fosse vero: Peccato che ….ciò sia vero troppo di rado! Badate che non ho detto che non possa essere vero, perché non vorrei dar dell’impostore a nessuno; ma ho detto che troppo raramente quest’incultura può davvero essere consigliabile: Ed è per ciò che qui non credo sia il caso di entrar in particolari al riguardo. Per ciò che a voi può interessare, io quindi ripeto coi nostri vecchi: il buon viticoltore deve bene lavorare il terreno del suo vigneto.
M’affretto però subito ad aggiungere che oggi il saggio viticoltore deve cercar il modo di lavorar bene il suo vigneto ma con la minima spesa. E qui dovrei ripetere cose già dette e a voi ben note: il valore, che par vada scemando, dell’uva e del vino, i salari che van sempre crescendo della mano d’opera…. Ma non voglio perdermi in chiacchiere, e vengo ai fatti.
Diciamo subito che, in generale, una buona lavorazione dei vigneti importa un primo lavoro, più profondo degli altri ( ma non troppo, come un tempo si credeva: basta, nell’Italia settentrionale, una ventina di centimetri), da farsi in autunno o al principio dell’inverno. Un secondo lavoro, mediamente profondo, da farsi in primavera, prima della fioritura della vite. Un terzo lavoro, più superficiale degli altri, da farsi in estate, prima che l’uva cambi colore.
Non vi parlo del modo di eseguir praticamente questi lavori: son cose che voi potete insegnare a me. Però ricordo come non di rado questi lavori si facciano rincalzando o scalzando le viti. Ora, sulla convenienza di queste rincalzature e scalzature delle viti i pareri sono alquanto diversi. Dico subito che queste divergenze son dovute agli scopi ben differenti che tali operazioni possono prefiggersi a seconda dei luoghi.
Così, per esempio, nei climi caldi per lo più le viti si scalzano in autunno e si rincalzano a primavera. Perché? Perché laggiù piove specialmente in inverno, e si vuole, con la scalzatura, accumulare più acqua che sia possibile ai piedi delle viti. Nei paesi settentrionali invece di solito si rincalza in autunno e si scalza a primavera. Perché? Perché così le viti son meglio protette dal freddo, e perché il solco, che viene a restare in mezzo al filare, impedisce alle acque di pioggia o di neve di ristagnare ai piedi delle viti. Se però devo dirvi il mio parere, nei nostri paesi di collina, dove il freddo invernale non è eccezionalmente rigido, dove non vi è da temere eccesso di umidità attorno alle viti, non vedo la necessità ne di scalzare né di rincalzare. Basta lavorare il terreno alla pari, senza cercare inutili complicazioni.
Altro punto discusso, a proposito dei lavori del vigneto, è quello dell’opportunità o meno di fare ad esso dei lavori profondi. In questi ultimi tempi, dopo la corrente favorevole alla incultura della vite, un’altra s’è andata manifestando per la cosiddetta cultura superficiale. A dir il vero, questa pare raccolga maggiori simpatie e sembra anche più degna di attenzione. Ritengono dunque, i partigiani della cultura superficiale, che i lavori profondi al vigneto facciano più male che bene: E ciò soprattutto perché essi vengono, quasi inevitabilmente, a danneggiare molte delle radici superficiali della vite: radici che hanno grande importanza per il normale sviluppo della pianta.
Facendo invece lavori superficiali, queste radici verrebbero rispettate, mentre d’altra parte la superficie del terreno del vigneto si manterrebbe in buone condizioni. Chi ha ragione? Anche qui, molto dipende dalle condizioni naturali della località di cui si tratta. Tuttavia, in linea generale, si può ritenere che, se questa coltura superficiale può avere fortuna nei climi settentrionali e freschi, dove l’umidità non difetta mai, non altrettanto essa potrà adattarsi ai climi caldi e dove la siccità siano frequenti e prolungate. In queste condizioni, i lavori discretamente profondi saranno quelli più indicati per immagazzinare nel terreno una sufficiente provvista di acqua.
Ma in fatto di lavori al vigneto c’è però un argomento che oggi dev’esser preso nella maggior considerazione: è quello della lavorazione meccanica del terreno, per risparmiare al più possibile mano d’opera e quindi spese di coltivazione. Questo risparmio sarà tanto più notevole quanto maggiormente si riuscirà a sostituire all’opera dell’uomo il lavoro degli animali. Per poter fare questa sostituzione, occorre innanzi tutto che le condizioni del Vigneto permettano il lavoro degli animali, si capisce come questo non potrà utilmente applicarsi, dove i vigneti si trovano sopra colline troppo ripide o accidentate, dove il terreno è roccioso, dove, soprattutto, i filari son troppo ravvicinati, sicché gli animali non possono liberamente lavorare. Ecco perché dicevo, sere fa, che oggi in generale è più conveniente che non un tempo la viticoltura consociata a piante erbacee: perché essa, obbligando ad allargare gl’interfilari, rende anche possibile, o per lo meno più agevole, il lavoro con gli animali.Ma occorre, inoltre, avere per questo lavoro degli adatti strumenti. Fino a qualche anno fa, si può dire che l’unico strumento conosciuto ed usato a questo scopo fosse l’aratro. E tutti voi conoscete quegli aratrini leggeri da vigneti, con orecchio fisso o mobile, che vengono facilmente trainati da un cavallo o da un mulo e che fanno un discreto lavoro. Oltre a questi aratri comuni, oggi però si conoscono vari strumenti, o meglio, macchine per la lavorazione del terreno dei vigneti. Fra le migliori, ricordo le zappe –cavallo: macchine fornite di un numero vario ( per lo più cinque) di zappette, disposte su file parallele, sicché possono lavorare una striscia di terreno abbastanza larga, tanto da bastare una o due corse per lavorare tutto un interfilare d’un vigneto intensivo. Siccome basta un mediocre animale a trascinarle, fanno un lavoro molto economico, alquanto superficiale, è vero, ma adatto alla stagione primaverile-estiva, quando cioè ai lavori si domanda più che altro la funzione di mantenere la superficie del terreno smossa e libera da cattive erbe.
Oltre alle vere zappe-cavallo, si conoscono altre macchine che fanno un lavoro diverso: sono i cosiddetti estirpatori, coltivatori ecc: tutti destinati a far lavori molto solleciti e piuttosto superficiali. E infine vi ricordo un’altra categoria di strumenti, ancor poco nota in Italia, ma già abbastanza diffusa all’estero, dove si bada, più che da noi non si creda, all’economia delle lavorazioni. Voi sapete che quando si lavora il terreno delle vigne con l’aratro ( e lo stesso press’a poco si può dire per gli altri strumenti di cui parlavo) resta sempre una striscia di terra più o meno larga sotto i ceppi, che dallo strumento aratorio non può venir lavorata, e che deve invece essere ultimata col lavoro umano.
Ora, evidentemente ciò fa perdere una parte del beneficio della lavorazione con gli animali. Si è perciò studiato di costruire qualche strumento capace di lavorare con gli animali, anche questa striscia di terra. In Francia, di questi strumenti se ne conoscono di diversi tipi: i più interessanti sono certe specie di aratri ( che i Francesi chiamano charrues dé-cavailloneuses, perché essi dicono cavaillon quella certa striscia di terra), capaci di spingersi sin sotto i ceppi, senza però danneggiare i medesimi. Finora come vi dicevo, questi strumenti non si sono ancora diffusi in Italia: ma io ve li ho ricordati, perché credo che sarebbero degni di essere provati e studiati anche dai nostri viticoltori. E concludo su questa lavorazione dei vigneti: riteniamo dunque che essa, nelle nostre regioni , è necessaria; tanto più profonda, quando il clima è arido; mai però fino al punto da dover danneggiare le radici della vite.
E per quanto possibile, cerchiamo di sostituire alla lavorazione con gli operai quella con gli animali, perché in questo modo diminuiremo di non poco le spese di coltivazione del vigneto. Buona notte a lor signori.
M’affretto però subito ad aggiungere che oggi il saggio viticoltore deve cercar il modo di lavorar bene il suo vigneto ma con la minima spesa. E qui dovrei ripetere cose già dette e a voi ben note: il valore, che par vada scemando, dell’uva e del vino, i salari che van sempre crescendo della mano d’opera…. Ma non voglio perdermi in chiacchiere, e vengo ai fatti.
Diciamo subito che, in generale, una buona lavorazione dei vigneti importa un primo lavoro, più profondo degli altri ( ma non troppo, come un tempo si credeva: basta, nell’Italia settentrionale, una ventina di centimetri), da farsi in autunno o al principio dell’inverno. Un secondo lavoro, mediamente profondo, da farsi in primavera, prima della fioritura della vite. Un terzo lavoro, più superficiale degli altri, da farsi in estate, prima che l’uva cambi colore.
Non vi parlo del modo di eseguir praticamente questi lavori: son cose che voi potete insegnare a me. Però ricordo come non di rado questi lavori si facciano rincalzando o scalzando le viti. Ora, sulla convenienza di queste rincalzature e scalzature delle viti i pareri sono alquanto diversi. Dico subito che queste divergenze son dovute agli scopi ben differenti che tali operazioni possono prefiggersi a seconda dei luoghi.
Così, per esempio, nei climi caldi per lo più le viti si scalzano in autunno e si rincalzano a primavera. Perché? Perché laggiù piove specialmente in inverno, e si vuole, con la scalzatura, accumulare più acqua che sia possibile ai piedi delle viti. Nei paesi settentrionali invece di solito si rincalza in autunno e si scalza a primavera. Perché? Perché così le viti son meglio protette dal freddo, e perché il solco, che viene a restare in mezzo al filare, impedisce alle acque di pioggia o di neve di ristagnare ai piedi delle viti. Se però devo dirvi il mio parere, nei nostri paesi di collina, dove il freddo invernale non è eccezionalmente rigido, dove non vi è da temere eccesso di umidità attorno alle viti, non vedo la necessità ne di scalzare né di rincalzare. Basta lavorare il terreno alla pari, senza cercare inutili complicazioni.
Altro punto discusso, a proposito dei lavori del vigneto, è quello dell’opportunità o meno di fare ad esso dei lavori profondi. In questi ultimi tempi, dopo la corrente favorevole alla incultura della vite, un’altra s’è andata manifestando per la cosiddetta cultura superficiale. A dir il vero, questa pare raccolga maggiori simpatie e sembra anche più degna di attenzione. Ritengono dunque, i partigiani della cultura superficiale, che i lavori profondi al vigneto facciano più male che bene: E ciò soprattutto perché essi vengono, quasi inevitabilmente, a danneggiare molte delle radici superficiali della vite: radici che hanno grande importanza per il normale sviluppo della pianta.
Facendo invece lavori superficiali, queste radici verrebbero rispettate, mentre d’altra parte la superficie del terreno del vigneto si manterrebbe in buone condizioni. Chi ha ragione? Anche qui, molto dipende dalle condizioni naturali della località di cui si tratta. Tuttavia, in linea generale, si può ritenere che, se questa coltura superficiale può avere fortuna nei climi settentrionali e freschi, dove l’umidità non difetta mai, non altrettanto essa potrà adattarsi ai climi caldi e dove la siccità siano frequenti e prolungate. In queste condizioni, i lavori discretamente profondi saranno quelli più indicati per immagazzinare nel terreno una sufficiente provvista di acqua.
Ma in fatto di lavori al vigneto c’è però un argomento che oggi dev’esser preso nella maggior considerazione: è quello della lavorazione meccanica del terreno, per risparmiare al più possibile mano d’opera e quindi spese di coltivazione. Questo risparmio sarà tanto più notevole quanto maggiormente si riuscirà a sostituire all’opera dell’uomo il lavoro degli animali. Per poter fare questa sostituzione, occorre innanzi tutto che le condizioni del Vigneto permettano il lavoro degli animali, si capisce come questo non potrà utilmente applicarsi, dove i vigneti si trovano sopra colline troppo ripide o accidentate, dove il terreno è roccioso, dove, soprattutto, i filari son troppo ravvicinati, sicché gli animali non possono liberamente lavorare. Ecco perché dicevo, sere fa, che oggi in generale è più conveniente che non un tempo la viticoltura consociata a piante erbacee: perché essa, obbligando ad allargare gl’interfilari, rende anche possibile, o per lo meno più agevole, il lavoro con gli animali.Ma occorre, inoltre, avere per questo lavoro degli adatti strumenti. Fino a qualche anno fa, si può dire che l’unico strumento conosciuto ed usato a questo scopo fosse l’aratro. E tutti voi conoscete quegli aratrini leggeri da vigneti, con orecchio fisso o mobile, che vengono facilmente trainati da un cavallo o da un mulo e che fanno un discreto lavoro. Oltre a questi aratri comuni, oggi però si conoscono vari strumenti, o meglio, macchine per la lavorazione del terreno dei vigneti. Fra le migliori, ricordo le zappe –cavallo: macchine fornite di un numero vario ( per lo più cinque) di zappette, disposte su file parallele, sicché possono lavorare una striscia di terreno abbastanza larga, tanto da bastare una o due corse per lavorare tutto un interfilare d’un vigneto intensivo. Siccome basta un mediocre animale a trascinarle, fanno un lavoro molto economico, alquanto superficiale, è vero, ma adatto alla stagione primaverile-estiva, quando cioè ai lavori si domanda più che altro la funzione di mantenere la superficie del terreno smossa e libera da cattive erbe.
Oltre alle vere zappe-cavallo, si conoscono altre macchine che fanno un lavoro diverso: sono i cosiddetti estirpatori, coltivatori ecc: tutti destinati a far lavori molto solleciti e piuttosto superficiali. E infine vi ricordo un’altra categoria di strumenti, ancor poco nota in Italia, ma già abbastanza diffusa all’estero, dove si bada, più che da noi non si creda, all’economia delle lavorazioni. Voi sapete che quando si lavora il terreno delle vigne con l’aratro ( e lo stesso press’a poco si può dire per gli altri strumenti di cui parlavo) resta sempre una striscia di terra più o meno larga sotto i ceppi, che dallo strumento aratorio non può venir lavorata, e che deve invece essere ultimata col lavoro umano.
Ora, evidentemente ciò fa perdere una parte del beneficio della lavorazione con gli animali. Si è perciò studiato di costruire qualche strumento capace di lavorare con gli animali, anche questa striscia di terra. In Francia, di questi strumenti se ne conoscono di diversi tipi: i più interessanti sono certe specie di aratri ( che i Francesi chiamano charrues dé-cavailloneuses, perché essi dicono cavaillon quella certa striscia di terra), capaci di spingersi sin sotto i ceppi, senza però danneggiare i medesimi. Finora come vi dicevo, questi strumenti non si sono ancora diffusi in Italia: ma io ve li ho ricordati, perché credo che sarebbero degni di essere provati e studiati anche dai nostri viticoltori. E concludo su questa lavorazione dei vigneti: riteniamo dunque che essa, nelle nostre regioni , è necessaria; tanto più profonda, quando il clima è arido; mai però fino al punto da dover danneggiare le radici della vite.
E per quanto possibile, cerchiamo di sostituire alla lavorazione con gli operai quella con gli animali, perché in questo modo diminuiremo di non poco le spese di coltivazione del vigneto. Buona notte a lor signori.
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